La “guerra al terrore” voluta nel 2001 dall’amministrazione Bush «ha ucciso direttamente o indirettamente circa un un milione di persone in Iraq, 220.000 in Afghanistan e 80.000 in Pakistan, un totale di circa 1 milione e 300 mila persone», soprattutto civili. È questa la conclusione a cui giungono gli autori di Body Count. Casualty Figures After 10 Years of the War on Terror, un rapporto redatto da tre gruppi di scienziati attivi nella causa del pacifismo e del disarmo nucleare: Physicians for Social Responsibility, Physicians for Global Survival e gli International Physicians for the Prevention of Nuclear War, la federazione di medici attiva in 64 paesi che nel 1985 si è aggiudicata il Nobel per la pace per «aver creato consapevolezza sulle catastrofiche conseguenze di una guerra nucleare». Si tratta di una stima che, pur escludendo altri paesi coinvolti nella guerra al terrore come lo Yemen e la Somalia, e «nonostante sia al ribasso», «è 10 volte superiore rispetto a quella di cui è consapevole il pubblico, gli esperti e i decisori politici e rispetto a quella diffusa dai media e dalle principali organizzazioni non governative».

Che i conti non tornino non deve sorprendere, nota nella presentazione del rapporto Hans Christof von Sponeck, già Assistente Segretario Generale e Coordinatore per gli Affari Umanitari dell’Onu in Iraq dal 1998 al 2000: «il ventunesimo secolo ha visto una perdita di innocenti vittime civili su una scala senza precedenti, specialmente in Iraq, Afghanistan e Pakistan», ma queste vittime sono state «ufficialmente ignorate» dalle autorità statunitensi. Non per una «svista, ma per una omissione deliberata». Tenerne conto avrebbe infatti «demolito la tesi che liberare con la forza militare l’Iraq da una dittatura, rimuovere al-Qaeda dall’Afghanistan ed eliminare i santuari dei terroristi nelle aree tribali del Pakistan abbia impedito che il terrorismo raggiungesse gli Stati Uniti, migliorato la sicurezza globale e promosso i diritti umani».
Il rapporto internazionale, reso pubblico un paio di settimane fa, riprende e completa quello pubblicato lo scorso ottobre in tedesco dalle tre organizzazioni ed è stato presentato come «un contributo significativo per ridurre la discrepanza tra le stime affidabili sulle vittime civili… e quelle tendenziose, manipolate o perfino fraudolente» fatte circolare dai comandi militari e dai governi. Per Hans Christof von Sponeck un’informazione completa, trasparente e corretta sulle vittime provocate dalla guerra al terrore è infatti il presupposto per chiedere giustizia e per accertare responsabilità morali e giuridiche. Mentre per il fisico statunitense Robert M. Gould serve a contrastare la retorica degli Stati Uniti, con cui si attribuisce l’attuale violenza in Medio Oriente a scontri intestini, confessionali e settari, piuttosto che al militarismo aggressivo a stelle e strisce.

Ma veniamo ai dati, partendo dall’Iraq. A differenza che per l’Afghanistan e per il Pakistan, nel caso della guerra irachena ci sono state diverse iniziative per calcolare il numero delle vittime civili. Gli autori del rapporto hanno valutato tutti i rapporti esistenti (British Iraq Body Count, rivista Lancet, ministero della Salute iracheno, rapporto dell’ottobre 2013 della rivista Plos Medicine, etc), comparato le metodologie adottate, scartato ipotesi scientificamente fragili e tirato le somme: «Il numero di circa un milione di vittime fino al ritiro delle truppe americane nel dicembre 2011 rimane sfortunatamente realistico». Come ricorda nell’introduzione Jens Wagner, membro dell’associazione Physicians for the Prevention of Nuclear War e coordinatore del rapporto, si tratta del 5% per cento dell’intera popolazione irachena, un numero che assume una luce ancora più fosca se si pensa che «durante la seconda guerra mondiale la Germania ha perso il 10% della sua popolazione».

Nel caso dell’Afghanistan, i dati disponibili sono pochi e frammentari. Anche i rapporti di Unama, la missione delle Nazioni Unite a Kabul, presentano lacune, e non coprono i primi anni della guerra. I risultati del rapporto Body Count sono sconcertanti: «L’Afghanistan ha sofferto dalle 72.500 alle 116.000 vittime civili», a cui si sommano i 55.000 morti stimati tra le fila dei movimenti anti-governativi, i 15.000 membri delle forze di sicurezza afghane, i 3.500 tra le forze occidentali, altri 3.000 contractors. In totale, «fino alla fine del 2013 possiamo stimare 200.000 morti». Una media approssimativa di 1.400 morti al mese dall’inizio dell’occupazione militare americana. In Pakistan la guerra non è mai stata dichiarata, ma la popolazione subisce il conflitto tra i gruppi islamisti armati e l’esercito pachistano, foraggiato dagli Stati Uniti. Qui, scrivono gli autori del rapporto, «il numero delle vittime civili e dei combattenti morti è molto più difficile da determinare», ma una stima è comunque possibile: «almeno 80.000 pakistani (insorti, membri delle forze di sicurezza, civili) sono stati uccisi, con un numero doppio di civili rispetto ai combattenti» (50.000 civili uccisi). Questo vuol dire che «sembra realistico considerare un numero complessivo di 300.000 vittime di guerra nel teatro afghano-pakistano fino al 2013». Tra queste, alcune sono state uccise dai droni: dal 2004 all’ottobre del 2012 i pachistani eliminati dai droni americani sono stati tra i 2,318 e i 2,912, «la maggior parte di loro civili». Dati che non lasciano dubbi, scrive Jens Wagner, per il quale «le tanto apprezzate armi di precisione non cambiano l’alta percentuale di vittime uccise nel conflitto o come conseguenza indiretta» della guerra: «l’esecuzione dei presunti nemici tramite l’uso di droni da battaglia, una pratica che il presidente degli Usa sta ordinando con frequenza crescente, non solo viola l’attuale diritto internazionale, ma conduce anche a un alto numero di vittime civili».