«Mantieni fedelmente la luce»: per Lebohang Kganye (Johannesburg, Sudafrica 1990, vive e lavora a Johannesburg) Keep the Light Faithfully è un titolo che riflette più di un significato. Storyteller dalla potente forza evocativa, l’artista sudafricana che nel 2021 aveva presentato le serie Tell Tale e In Search for Memory al festival Fotografia Europea di Reggio Emilia, è stata insignita della Menzione speciale della giuria in occasione della VII/a edizione del Mast Photography Grant on Industry and Work, il concorso fotografico su industria e lavoro aperto ai talenti emergenti, organizzato dalla Fondazione Mast di Bologna. Insieme agli altri quattro finalisti, Hicham Gardaf (vincitore), Farah Al Qasimi, Maria Mavropoulou e Salvatore Vitale, il suo progetto è ora esposto nella mostra curata da Urs Stahel nelle photo gallery del Mast (visitabile fino al 1° maggio).
Diversamente dai lavori precedenti, incentrati memoria familiare e soggettiva, in Keep the Light Faithfully Kganye ha focalizzato il suo interesse su quella collettiva, analizzando il mestiere delle guardiane del faro, «eroine quotidiane inquadrate all’interno delle loro ignote disavventure», come le definisce Elvira Dyangani Ose nel testo critico del catalogo, attraverso un’interpretazione che parte dal racconto orale.

Lebohang Kganye al Mast di Bologna, 2002 (foto Manuela De Leonardis)

In che modo il concetto di materialità della fotografia, il suo essere oggetto tridimensionale connesso a un aspetto scultoreo, alla performance e alla teatralità, interagisce con il linguaggio in sé?
Sono sempre stata molto affascinata dalla letteratura, io stessa scrivo poesie e ho studiato giornalismo. Alla fotografia mi sono avvicinata per caso. Ho frequentato il corso di giornalismo perché pensavo che fosse un modo per studiare la letteratura africana. Un altro mio interesse è quello investigativo, la ricerca e la conoscenza delle nostre storie, argomento centrale del mio lavoro. Vado sul posto, parlo con la gente, ascolto le narrazioni sulle storie sudafricane che sono diverse tra loro: un modo per vedere come il Sudafrica è mutato nel tempo. Quindi sì, la mia ricerca si basa sul contesto sudafricano e anche sulle conseguenze dell’apartheid sui molti aspetti della società. Quando ho finito il mio corso di studi in fotografia ho lavorato per due anni in una produzione televisiva creando scenografie e pezzi teatrali. Mi piacevano quelle sagome ritagliate nel cartone che sembrano quasi spazi reali. Così quando due anni dopo si è concluso il mio lavoro per la produzione televisiva, ho cominciato a usare quel linguaggio visivo nella mia fotografia e nella pratica artistica, realizzando grandi sagome fotografate, ritagliate e applicate sul cartone in cui partivo dalle ricerche sulla storia della mia famiglia.

Avendo studiato al Market Photo Workshop, fondata nel 1989 a Johannesburg da David Goldblatt, l’utilizzo del bianco e nero ha avuto una valenza particolare nel suo lavoro?
Quando studiavo lì, le cose erano già molto cambiate. La generazione di fotografi che mi aveva preceduta era costituita prevalentemente da fotogiornalisti e anche chi normalmente non aveva accesso alla fotografia (perché nero) era ammesso. La fotografia veniva usata per combattere l’apartheid. Ai miei tempi, invece, c’era più un approccio d’indagine personale. Come me anche altri fotografi avevano iniziato a guardare dentro di sé. Indagavamo la nostra storia, l’identità di sudafricani quando l’apartheid era un capitolo chiuso. Per me si è trattato di capire la storia, ma anche di creare uno spazio in cui immaginare un Sudafrica diverso giocando sulla narrazione ufficiale, scritta e quella vissuta dalla gente in base alla propria esperienza. Il mio uso della fotografia in bianco e nero è connesso all’idea di come immagino il passato. Nelle mie prime opere, l’unica immagine a colori era la mia, ma adesso è tutto in bianco e nero.

Qual è il significato di porsi all’interno della storia?
Lo facevo soprattutto nei miei primi lavori (Ke Lefa Laka: Heir-Story, 2013, ndr), dove parlavo della storia della mia famiglia. Una ricerca che è durata due anni, durante i quali ho viaggiato in Sudafrica per cercare le mie origini, a partire dal mio cognome. «Kganye» vuol dire luce ma viene scritto in modi diversi. Anche questo progetto, Keep the Light Faithfully, è molto collegato al mio cognome: faro e luce. Ad ogni modo, per capire l’origine del mio cognome ho incontrato tante persone della famiglia che non conoscevo. Le storie partono dalla figura di mio nonno che è stato il primo, durante l’apartheid, a lasciare la campagna dell’Orange per trasferirsi in città, a Johannesburg, alla ricerca di un impiego. Nelle mie fotografie ho indossato i suoi panni, mettendo anche la sua giacca. Non l’ho mai conosciuto perché è morto prima che nascessi, ma ho delle foto in cui è ritratto: indossa sempre il completo. Quindi sì, la storia riguardava lui ma io ero la persona a colori. Un’idea collegata alla riflessione sul tempo passato e anche, attraverso la mia presenza, a quello contemporaneo. Gioco sulla memoria in rapporto al reale e all’immaginario.

Lebohang Kganye, Prigioniero al lavoro alla manutenzione – Prisoner doing the general work, 2022 (foto Manuela De Leonardis)

A proposito di memoria e perdita, nella serie «Ke Lefa Laka» che ruota intorno alla memoria della figura chiave di sua madre, la fotografia ha avuto anche una valenza terapeutica?
È decisamente legata all’aspetto terapeutico in relazione alla mancanza, al lutto. Non saprei spiegare come è successo, guardavo semplicemente le foto dell’album di famiglia per ricordare mia madre e ho realizzato che nell’armadio c’erano ancora tanti suoi vestiti. Ho iniziato questo progetto nel 2010, senza averne la consapevolezza. Le foto dell’album risalgono agli anni ’80, quando indossavo i suoi abiti avevo la sua età. Cercavo pure le stesse location in cui era stata ritratta. Trovo che ci sia qualcosa di vivo in tutto ciò.

Eccoci, infine, a parlare di «Keep the Light Faithfully»: nel creare la grande installazione centrale c’è anche la volontà di rendere partecipe lo spettatore, facendolo entrare fisicamente nell’opera?
Questo lavoro ha molto a che fare con l’idea della storia costruita e alla possibilità per chiunque di entrare in quella stessa storia. Anch’io lo faccio, ne divento parte. Circa due anni fa, leggendo il libro di Lenore Skomal The Lighthouse Keeper’s Daughter: The Remarkable True Story of American Heroine Ida Lewis, ero rimasta affascinata dalla figura di Ida Lewis. Mi aveva colpito il fatto che ci fossero state duecento donne guardiane del faro negli Stati Uniti e in Europa e speravo di trovarne anche in Sudafrica. Invece, ho incontrato solo uomini. Il progetto è nato dal viaggio che ho fatto lungo le coste sudafricane, da Cape Town a Durban, durante il quale ho incontrato otto guardiani del faro che ho intervistato sulla loro professione e su come questa fosse cambiata con la modernizzazione. Molti, proprio a causa dell’automazione, non hanno più lavoro.

Nel mettere in relazione il faro con il cimitero c’è anche la rappresentazione simbolica della dualità vita/morte?
La dualità vita/morte è sempre presente, riguarda anche la teorizzazione della fotografia e il suo rapporto con il tempo. Molte storie che ho raccolto parlano di spiriti, spazi infestati, creature strane e si riferiscono anche all’acqua, ai tanti morti in mare e alla storia stessa degli schiavi. La luce e l’acqua, anche in relazione al faro, possono avere molti aspetti positivi e altrettanti negativi.