Il Fondo Monetario nel suo ultimo rapporto descrive l’Europa, specificatamente quella meridionale, come l’anello debole della ripresa e suggerisce un surplus di protagonismo da parte della Bce per consentire anche al Vecchio continente di acciuffare la ripresa. Questa, ancora drogata dalle continue immissioni di liquidità (negli ultimi due mesi persino la Cina ha immesso una quantità di denaro superiore alla metà di quella che riversa la Fed), non riesce a trascinare tutti nel medesimo modo. La ripresa non può, infatti, essere considerata semplicemente un treno a cui aggrapparsi, tanto più se non si riesce neppure a inquadrare chiaramente quale sia il soggetto che svolge il ruolo di locomotore. Al momento non lo sono né gli Usa né i paesi emergenti, ma neanche la tanto invidiata Germania. Il Fmi per i tedeschi prevede nel 2013 una crescita modesta, 1.6% quest’anno e 1.4% nel 2015. Per l’Italia le stime oscillano tra lo 0.6% del Fondo e lo 0.7% della Banca d’Italia. Certo non dovrebbe esserci il segno meno, ma si tratta indubbiamente di uno stallo.

I problemi stanno nella natura dell’Unione europea, in quella asimmetria di condizioni dentro rigidità di politica economica e monetaria che inducono a scelte basate su austerità e disciplina di bilancio. Ma alcuni progetti fanno da substrato a tali decisioni e consistono nell’individuare come via maestra l’export. Cioè prevedono di raggiungere la ripresa letteralmente aggrappandosi a una ipotetica recupero dei consumi da parte di terzi, siano paesi emergenti o meno. Tutte le principali scelte industriali, di riforma del mercato del lavoro, di politica economica, vanno in questa direzione. Riduzione dei costi per tornare a essere competitivi. Anche se tale prospettiva, si direbbe in linguaggio sportivo, rappresenta una gara senza partita, cioè senza possibilità di risultare vincenti. In un recente intervento sul «Sole 24 ore» l’economista Marco Fortis ha definito la domanda estera come un utile contributo alla crescita, ma nel complesso «relativamente marginale». Tale considerazione emergerebbe da uno studio di lungo periodo sulle fasi espansive dei paesi più sviluppati. Nel periodo antecedente la crisi, dal 1995 al 2008, in 16 dei 28 paesi della Ue (tra cui Inghilterra, Francia, Italia e Spagna), la crescita cumulata del Pil è il risultato unicamente della crescita della domanda interna, per altre 8 nazioni invece la domanda interna ha rappresentato l’80% dell’aumento del Pil, e solo per 4 paesi la domanda interna ha contribuito per meno dell’80% (Germania, Austria, Malta e Lussemburgo). In Germania il contributo del fronte interno è stato pari al 58% della crescita del Pil. Tali calcoli sono fatti considerando la domanda estera al netto delle importazioni. Da segnalare che in questo lasso di tempo gli aumenti del Pil tedesco e italiano sono stati tra i più modesti dei paesi sviluppati. Durante la fase successiva (2009-2013), quella della crisi, le economie con il segno meno sono poche e tra queste c’è la Germania, tuttavia in questo caso la crescita è stata il risultato della domanda interna, dunque non della sua competitività con l’estero. A ciò corrisponde che la profonda recessione in paesi come Spagna e Italia sia il frutto di un crollo della domanda interna, nonostante la domanda estera sia addirittura migliorata. Ma non solo, essendo il baricentro degli scambi commerciali ancorato al livello europeo (ben oltre il 50%), la depressione del continente per paesi come l’Italia controbilancia la crescita extraeuropea.

Se nel 2012 vi era stata una crescita dell’export significativa, i problemi continentali nei primi dieci mesi del 2013 hanno prodotto addirittura una contrazione dell’0.5%. Insomma tempi duri se la domanda interna non tira. Nessuna scorciatoia da paese emergente può essere credibilmente applicata a paesi come l’Italia.