Nella ricchissima mitografia longhiana, nel racconto polifonico dedicato – in lettere, in articoli e in memoria – alla stagione eroica vissuta a Bologna dallo storico dell’arte piemontese a cavallo del secondo conflitto, riveste un ruolo distintivo, a un tempo esemplare e aneddotico, l’apologo breve costruito attorno a una tavola di Jacopo di Paolo, l’Incoronazione verde e ridente custodita nella pinacoteca del capoluogo emiliano.

Protagonisti due allievi fedeli al professore, presenze assidue nelle sue classi alla Facoltà di Lettere, Francesco Arcangeli e Alberto Graziani; a raccontarlo le voci stesse dei protagonisti, in affettuosa triangolazione con quella del docente grazie a un intreccio di missive capace di sovrapporre alla facile frequentazione sotto i portici cittadini il bisogno incontenibile di parlarsi e confrontarsi, quando l’estate diradava gli incontri nelle aule universitarie o nei caffè del centro.

Così, è lo stesso Graziani a informare Longhi di quanto, assieme al collega davanti alla Vergine trecentesca, il tempo fosse trascorso – in un giorno di luglio del 1937 – nell’identificare, fra il «gruppo di angiolini, sopra l’Incoronazione col Cristo dalla mandibola volitiva», un’intera «scuolina elementare» gremita di fanciulli, discoli o diligenti: «ci sono gli attenti del primo banco, il primo della classe, il ripetente zuccone e vecchione, le canaglie degli ultimi banchi».

Rispetto a una cronaca tanto scanzonata, che nel dettaglio ‘fascistissimo’ di un Salvatore fisiognomico allude alla silenziosa dissidenza del gruppo concorde, stupisce tuttavia la risposta secca, sollecita di Longhi, girata ad Arcangeli in replica all’altro interlocutore; reazione che, nella sbrigativa prosa del maestro, mima quasi – in figura involontaria – la parabola spietata del fico sterile. «Ho saputo che con Graziani avete classificato gli angeli scolaretti dell’Incoronazione; e va bene. Però non insista troppo su cotesti motivi; e cerchi di scoprire dei rapporti più interni, di linguaggio figurativo… Ma non c’è bisogno che mi sgoli con Lei».

Il messaggio – letto da Fabio Massaccesi in un contributo seminale, già vecchio di dieci anni – torna oggi al centro di un nuovo libro, di Ambra Cascone, La città dei destini incrociati Arcangeli, Bassani, Bertolucci e Pasolini allievi bolognesi di Roberto Longhi (Ronzani editore, pp. 380, euro 26,00), di fatto la riedizione rivista e (appena) aggiornata del volume consegnato dall’autrice, nel non lontano 2021, alle edizioni universitarie padovane, la UP d’ateneo.

Giorgio Morandi (sn) e Roberto Longhi (dx) alla Biennale di Venezia del 1948, part., Archivio Cameraphoto Epoche / Getty Image

Rispetto all’indagine di Massaccesi, l’ambizione spiccatamente «generazionale» che motiva l’analisi della studiosa rende tuttavia un simile spunto ancora più significativo. Invita il lettore a riflettere sulla prospettiva unidirezionata che ha spesso mosso gli sguardi rivolti a Palazzo Poggi, all’aula in via Zamboni nella quale Longhi celebrava il rito di docente carismatico, sotto la luce contrastata di un proiettore per diapositive e con in mano la lunga canna, presente ancora fra i tesori del rettorato.
Di quelle lezioni sappiamo molte cose, il ritmo blasé e sornione, i giudizi taglienti, lo sfoggio facondo di cultura cosmopolita, l’ironia leggendaria, sprezzata. Conosciamo addirittura l’eleganza sgualcita e impeccabile delle mises del professore, in grado di sottrare le sigarette, spioventi dalle labbra, a qualsiasi ragionevole centro di gravità. Siamo poi informati dei temi, scanditi d’immagine in immagine al cospetto dei banchi in legno allineati lungo uno stretto anfiteatro, così come sono censite le assenze di Longhi in andirivieni da Roma, le gabole concorsuali e le invidie dei colleghi; si ha un’idea altrettanto chiara di certe indisciplinatezze dell’uomo, che la Cascone inanella – con altri aspetti burocratici della sua docenza engagé – grazie a sondaggi ennesimi negli archivi d’ateneo, dopo quelli avventurosi, apripista condotti da Dario Trento nei primissimi anni novanta.

Meno invece siamo consci di quanto, durante le lezioni, avveniva fra i banchi e in classe, a tal punto l’amore per l’intellettuale «forastiero» nutrito dagli studenti affezionati si è imposto da tema unico ai ricordi, ai racconti. Non sappiamo, ad esempio, dove amasse sedere il placido Attilio Bertolucci e quale atteggiamento s’imponesse, fra la massa dei colleghi, l’aplomb borghese di Giorgio Bassani; disconosciamo gli entusiasmi e i rancori degli allievi meno promettenti e intuiamo appena il cameratismo al maschile dei corridoi e dei seminari, degli approfondimenti in biblioteca e delle domande intrepide, ricavandolo tutt’al più dagli epistolari superstiti, dalle lettere di Graziani e Arcangeli, pur sempre echi guasconi della stilizzazione compiaciuta cara a quei momenti accademici.
Serve pertanto il lavoro di collazione condotto dal libro uscito oggi (con, in copertina, la bella calligrafia di Franco Zabagli). Oltre alle brevi novità documentarie, ha infatti il merito di allineare bibliografie riferite di solito ai «monumenti» individuali di autori distinti e celebri, ritmando insieme leve distanti e successive. La Cascone, cioè, riconduce a una lectio coerente i risultati della mostra su Bassani, organizzata nel 2016 all’Archiginnasio (complice della figlia dello scrittore l’expertise di Marco Antonio Bazzocchi), e i pensieri dell’ultimo anniversario pasoliniano, pure esposti nel loggiato del prestigioso polo bolognese; e nel far questo riassume i memoirs di Bertolucci raccolti in La consolazione della pittura e le istantanee di Graziani riunite per Nuova Alfa da Tina Longhi.

Certo, tale antologia non può che mancare un dato da sempre ritenuto l’humus fertile di quegli scambi, le conversazioni a latere fra docente e allievi, i commenti confidenziali, le ammissioni inattese e le aperture divaganti. In questo senso, in luoghi diversi nei primi capitoli, La città dei destini incrociati si sofferma, diligente, sulla passione longhiana per il cinema, notizia svelata ai curiosi dai souvenirs di uno spettatore incallito quanto Renzo Renzi; tuttavia, non può che farlo per ellissi, a tal punto quell’oralità amichevole ha prodotto riflessi nelle parabole individuali dei singoli studenti, senza tuttavia costituirsi come deposito misurabile, in termini di nomi, di opere e di solida consistenza.
A farne le spese è, soprattutto, l’attenzione che Longhi dovette rivolgere alla contemporaneità artistica, alle sue espressioni elette.

A parte il caso conclamante del sostegno pubblico espresso a Giorgio Morandi, dell’assidua presenza in via Fondazza, il professore giungeva infatti in Emilia con alle spalle una coraggiosa militanza critica, istruita nell’agone ufficialissimo della capitale. Poco si conosce di questo apostolato, non meno notevole di quello mirante all’erudita rivalutazione dei Carracci, a perseguire la linea di una grassa, dottorale padanità nell’atmosfera umida di Bologna: lo testimonia, assieme alla bibliografia giovanile di Arcangeli, la scelta della tesi da parte di Pier Paolo Pasolini, anch’egli allievo di Longhi in limine belli, che – dapprima curiosa del Cinquecento – si era orientata per indicazione del docente sui nomi di Carrà e di De Pisis, a corona di quello dell’estatico pittore di rose, bottiglie e barattoli. Tuttavia, notizie sparse e inedite, sfuggite sin qui alla bibliografia e non riscontrabili neppure fra le pagine della Cascone, possono ulteriormente sostanziare una linea siffatta, aggiungendo al discorso elementi ulteriori, utili ad ampliare il raggio delle indicazioni longhiane.

Pensiamo in particolare al fatto che Pasolini, nella primavera del 1942, avrebbe prodotto un articolo su «un quadro di Scipione (Il Cardinal Decano)», pezzo a oggi non rintracciato ma la cui stesura è comprovata, su base documentaria (e che si troverà a commentare in un contributo di prossima uscita). Con ogni evidenza si tratta di un innesto romano in terra d’Emilia che, nel registrare l’attenzione dello studente per l’espressionismo di via Cavour, non può che riflettere antiche predilezioni di Longhi, espresse ormai da tempo in chiave di secessione, politica ed estetica, rispetto a tutto un classicismo fascista e sarfattiano. Non a caso, i primi pregiudizi da questi esercitati sulla figura sensibile del tesista Pasolini, condivisi con lo stesso Arcangeli, lo avevano accusato di un pericoloso novecentismo motorizzato: l’auctoritas del maestro doveva averlo prontamente ricondotto ad altri amori, e non solo in direzione della quieta luce di Morandi.