Un oggetto mutante, stridente, che plana a volo radente sul cinema italiano. Un oggetto filmico che dichiara un’estraneità radicale nei confronti del cinema italiano contemporaneo. Che rischia e si mette in gioco. E rischia con un tale candore stupefatto, nel quale persino le inevitabili incrostazioni snob sono dichiarate come parte integrante di un gioco pericoloso, situato sul crinale di un autocompiacimento che è anche un provocatorio autodafé. Un gioco che ingaggia un furioso corpo a corpo con lo sguardo dello spettatore. Tratto dall’omonimo libro di Aldo Nove, La vita oscena di De Maria è un esempio classico di ciò che una volta si sarebbe definito «cinema impuro». Di fronte alla difficoltà di mediare fra voce della scrittura e voce del film, De Maria ha scelto di ricorrere a una lingua eccedente ed eccessiva, un controcanto continuo e volutamente ossessivo rispetto al corpo delle immagini.

 

 

Una scelta non facile. Una scelta problematica. Nel ripercorrere la traccia del romanzo e la storia di un adolescente che tenta di scomparire completamente, De Maria ipotizza la possibilità di un film muto completamente penetrato da una voce che sembra un flusso di coscienza (o un monologo interiore) come avrebbe potuto immaginarlo un Robert Z. Leonard in Strano interludio. Ovvio che il torrente di parole si abbatta sulle orecchie del pubblico, anche di quello disponibile, con un fare stridente, a tratti abrasivo. Anche perché, ferocemente, De Maria scinde il corpo di Clément Métayer dalla voce narrante di Fausto Paravidino. E se la traccia visiva del film rimanda ad altre storie del paese e del cinema italiano la voce, a tratti, pur restando fedele alla pagina di Nove, priva del supporto cartaceo, si smarrisce nei meandri di un vocabolario e di costruzioni sin troppo dense. E se la macchina la presa vola, come in action painting che aspiri a un free jazz puramente sensoriale, il testo rimanda, purtroppo, a una serie di relazioni e connessioni meno libere di quelle che suscitano le immagini.

https://youtu.be/8ZOQ4G3-dc0

 

Certo Nove è accreditato come sceneggiatore insieme al regista, ma sarebbe stato interessante osservare lo scrittore cancellare la propria parola per lasciarla reinventare come immagine dal regista. In questo modo il film di De Maria oscilla fra il troppo pieno di una voce e i vuoti che testardamente la macchina da presa tenta di insinuare nel corpo di un flusso densissimo di colori e segni. La vita oscena risulta così come un film sottratto a un altro tempo. Al tempo degli sconcerti rock e dei lontani da dove. Il tempo degli inviti al viaggio. Il tempo di un cinema italiano dallo sguardo lungo, durato purtroppo pochissimo.

 

 

Inevitabile che La vita oscena sembri fuori registro rispetto alle cose attuali del cinema italiano. De Maria calca volutamente la mano sul fatto linguistico reclamando per esso la centralità di fatto narrativo. Anzi: esibendolo «spudoratamente». Infilando in ogni inquadratura un’idea o un colore. Un gesto o un corpo (magnifico quello di Anita Kravos). Senza dimenticare un’Isabella Ferrari potente e un surrealismo da fumetto rock. Non è certo che tutto questo funzioni come dovrebbe. Probabilmente no. Probabilmente non è questo il punto.