In attesa della cerimonia, domani al Dolby Theatre di Los Angeles (e facendo tifo per Le Pupille di Alice Rohrwacher), quello che doveva essere l’Oscar del ritorno in sala, e di un nuovo inizio dopo la crisi pandemica (in realtà non ancora superata, anzi), appare circondato da una strana mestizia. Sarà l’impressione che tutto è già scritto, e si è in qualche modo consumato non solo per gli scommettitori più smaliziati; a dominare sarà quasi certamente Everything, Everywhere, All at Once, il film dei Daniels, ovvero Daniel Kwan e Daniel Scheiner, già vincitore dei premi importanti della stagione, in una corsa sempre più determinata dalle strategie di marketing, dagli agenti, dagli investimenti delle distribuzioni che hanno lasciato fuori alcuni dei titoli più belli dell’anno, uno su tutti Bones and All di Luca Guadagnino, forse perché «spaventati» dalla sua grazia inquieta poco conforme all’immaginario ammaestrato del tempo. A cui si accorda invece, e alla perfezione, Everything, Everywhere, All at Once, che ne sa cogliere con furbizia le necessità accarezzandone le suggestioni e le nuove regole.

I PROTAGONISTI sono una coppia di cinesi americani, i Wang Evelyn e Waymond, hanno una lavanderia a gettoni e sono oberati dalle tasse «incarnate» nella figura di una inflessibile funzionaria, Jamie Lee Curtis. Sono in ritardo coi pagamenti e ora devono giustificare le loro presunte detrazioni di spesa. Accade però qualcosa di imprevisto: Evelyn si trova catapultata in una missione impossibile, deve salvare il multiverso in pericolo assumendo le molteplici identità di sé stessa sparse nelle diverse parti del mondo e del tempo, in vite parallele, virtuali e reali, tra mani dalle dita giganti e amorfe, lotte di kung fu con oggetti comuni come armi, combattimenti in stile slapstick, la volontà di cancellare il destino e proiettarsi ovunque.

Detta così può essere tutto e niente. I Daniels, autori di un film che pure si era imposto all’attenzione quale Swiss Army Man – Un amico multiuso, commedia buddy con il morto, prendono qui come riferimento il cinema di Hong Kong (ma anche quello americano degli anni Ottanta),scelgono un cast prevalentemente asiatico – ci sono James Hong che era in Grosso guaio a Chinatown e Jonathan Qe Qwan che ha iniziato con Indiana Jones. Ma la star assoluta di una sceneggiatura pensata in un primo tempo per Jackie Chan è Michelle Yeoh, candidata alla migliore interpretazione femminile, la più seria «rivale» per la statuetta di Cate Blanchett – tra l’altro è esplosa la polemica per un post pubblicato (e subito rimosso da Yeoh) nel quale l’attrice malese citava un articolo su «Vogue» in cui si dice che Blanchett di Oscar ne ha già vinti due.
Cosa c’è dunque di così travolgente nel film dei Daniels? Secondo il quotidiano inglese «The Guardian», Everything nonostante la sua cifra fantastica «affronta questioni concrete quali le relazioni tra madri e figlie, tra mariti e mogli, la crescita, il coming out, i sogni e le delusioni, i vuoti generazionali e i sovraccarichi di informazione della nostra realtà». E aggiunge: «La narrazione potrebbe essere fuori dal mondo ma i problemi che pone (una vita di momenti fratturati, contraddizioni e confusione in cui le cose hanno un senso solo fugacemente) sono inequivocabilmente umani». Un film sul presente insomma, o piuttosto un film che sa come infilarsi in quelle che sono le sue «giuste argomentazioni»?

IL QUOTIDIANO francese «Liberation» ne sottolinea la capacità di dire «tutto e il suo contrario», di proiettare lo spettatore in un un totale relativismo senza un prima né un dopo, in cui «il multiverso è il migliore dei mondi possibile». Mentre «Le Monde» lo definisce un «ipnotico blockbuster famigliare» che amalgama la ricetta del film hollywoodiano di successo a una produzione indipendente. Questo ultimo è senz’altro un dato interessante ma basta a spiegare il successo ottenuto? Probabilmente no. Così come non basta quell’idea di «re-programming» che ne è alla base, il riuso sfrenato che gli autori fanno di altre immagini e altre storie, mischiando film quali In the Mood for Love, Matrix, Kentucky Fried Movie e via dicendo, nell’idea di rifare all’infinito che nega la possibile novità, l’originale della creazione, aspetto teorico importante e contemporaneo.

IL PUNTO è però che in questo multiverso nel quale soffiano tante possibili ipotesi attuali, la minaccia – si scoprirà – è un alter ego della figlia della protagonista con cui la donna è in attrito da quando le ha detto di avere una storia d’amore lesbica. Ecco che allora nella folle giostra di alterità sembra che da salvare sia solo questa armonia famigliare con cui il multiverso finisce per coincidere – o quanto meno per diventarne uno specchio troppo poco deformante. E questo frullare, sminuzzare, scomporre e ricomporre finisce nell’imbuto di una proiezione di noia esistenziale e dissapori madre-figlia alla ricerca di una salvezza che risulta reazionaria, in cui quegli «spigoli e fratture» devono ricomporsi senza disturbo.