La sconfitta è un sentimento complicato: può creare una forma di compassione per se stessi, motivare o giustificare fallimenti o costituire un valido motivo per ripartire, ricostruire qualcosa per reinventarsi una vita, una identità, un modo di pensare.

È UN MISCUGLIO di sentimenti che può essere sfuggente e non è detto possa arrivare a un suo punto finale: di sicuro lavora senza sosta, erodendo certezze e masticando propositi. Se poi la sensazione di «sconfitta» arriva a causa di eventi storici straordinari, emblema e simboli di un’epoca, ecco che il proprio baluardo umano, riflessivo, deve scontrarsi con un mondo di interpretazioni, analisi e talvolta ricette semplicistiche, per poi finire catalogato in un impersonale «fatto storico». Romeo Orlandi, vice presidente dell’Associazione Italia-Asean, docente di economia dell’Asia orientale all’università di Bologna e sinologo, sceglie di indagare questo tema complesso e ambizioso attraverso la forma narrativa.

Ne Il sorriso dei Khmer Rouge (DeriveApprodi, pp. 128, euro 13) le vite di due persone che hanno attraversato epoche complicate, violente e ancora da decifrare in modo completo, si ritrovano negli anni ’90 in un campo profughi allestito dalla Croce Rossa in Thailandia. Si tratta di un italiano impegnato nella lotta politica degli anni ’70 ma fuggito da Roma a causa di un delitto che costituirà la traccia «noir» presente in tutto il libro (e che si risolverà solo alla fine del volume) e Saloth, un cambogiano che ha preso parte alla rivoluzione dei Khmer Rossi in Cambogia.
Nel campo profughi Andrea affoga la disillusione e il mistero legato alla sua fuga repentina: è razionale e agisce con grande spirito di innovazione nel nuovo campo in cui si trova a operare. Il suo passato appare sospeso. È Saloth a risvegliarlo: il cambogiano è nel campo perché è stato mandato lì dalla dirigenza; nel suo momento di massima carriera tra le fila dei rivoluzionari, Saloth è incaricato di custodire nientemeno che i complessi dei templi di Angkor Wat, «il simbolo della nuova Cambogia che vogliamo costruire. Le sue cinque torri sono nella nostra bandiera. Angkor Wat rappresenta la grandezza della nostra cultura millenaria, lo splendore della nostra civiltà. Oggi è infestato da razziatori e contrabbandieri. Il nostro simbolo deve rimanere intatto. Conosci le teste di Angkor? Sono un’ammirevole opera d’arte. Hanno un sorriso innocuo e compassionevole, mite e sardonico, saggio e malizioso».

PER «DIFESA» si intende uno sterminato campo minato nel quale Saloth finisce per perdere una gamba. Non viene ucciso, ma quel sorriso «mite e sardonico» – simbolo del regime di Pol Pot – finisce per spedirlo in Thailandia, lontano dagli aspetti più cruenti di quella rivoluzione e dai sui potenziali benefici per la classe dirigente khmer.
Andrea e Saloth si conoscono e si percepiscono come simili, come solo chi ha vissuto momento di intensa tragedia, unita però a categorie politiche capaci di offrire interpretazioni. I loro dialoghi diventano così la chiave per tornare a parlare del proprio passato. «In queste settimane – dice Andrea a Saloth – hai risvegliato un lessico nascosto in qualche piega della memoria». Saloth comprende Andrea, seppure in maniera meno strutturata, e nel loro scambio c’è tutta la simbologia della loro nuova «amicizia». Attraverso questa relazione – e i tentativi occidentali di ottenere dei «perdoni» anziché «riconciliazione» Orlandi decide di attraversare un periodo storico immaginifico e sofferente, provando a ritrovare nell’umanità politica e dunque cosciente dei protagonisti, un legame sotterraneo tra mondi ancora oggi lontanissimi.

CON LA SUA CONOSCENZA dell’Asia, inoltre, sgombra il campo da incursioni «orientaliste» tipiche di un Occidente che cataloga i fatti solo secondo il proprio schema mentale. A una operatrice internazionale desiderosa di comprendere quanto accaduto in Cambogia, infatti, Andrea spiega la necessitò di spogliarsi delle proprie certezze quando la ammonisce: «Sei alla ricerca del perdono perché è una scorciatoia per il Regno dei cieli. Ma è il tuo paradiso, non il loro. Loro sono disposti a non vendicarsi. Per perdonare dovrebbero dimenticare, ma non vogliono farlo».