C’è un rimedio al linguaggio impoverito dei troppi automatismi che promettono una comunicazione e una felicità immediate? Un modo forse c’è, faticoso e inedito: misurarsi con le origini sconfitte, con la propria presa di parola per la prima volta, con gli ascolti mancati. E allora dedurne, dentro il vuoto acuminato nel quale siamo immersi da tempo, e certo non solo per effetto della pandemia «grandangolo del presente», le restanti possibilità di intervenire e trasformare la realtà data.

È QUELLO che Velio Abati propone, sommesso e gentile, nel suo libro Fughe di racconti, paesaggi, metafore, appelli (Manni editori, pp. 171, euro 17) uscito in questi giorni. Non siamo fatti in serie, suggerisce l’autore, dunque solo un attraversamento che faccia della memoria il grimaldello al presente della nostra vita ci può salvare. La memoria delle singole vite, una per una, in primo luogo dei dimenticati, di quelli inavvertiti o solo incontrati per caso e per occasione, percepiti in un angolo nella loro indecisione a consistere. Così eguale alla nostra.

Ecco che allora emergono dall’ombra figure inconsapevoli di avere lasciato una traccia indelebile nella formazione degli altri. Il percorso trova i nomi nella prima parte del libro, quello delle Voci. Ecco allora che tutti i nomi evocati per ogni racconto corrispondono a scoperte vere e proprie, diventano fiaccule: come le parole perse di Fantòn, l’autorevolezza fuggita di Attilio, l’impossibile imitazione di Gabrio sospeso tra lo scherzo fraterno e la scelta di continuare l’eredità politica dei padri, Livia che voleva esserci il meno possibile, la leggerezza passeggera di Ruth, Marcello che una notte decise il suicidio per una morte che, a differenza della sua vita, arrivò in un baleno; e tra tutti Lorenzo – probabilmente il «cuore» del libro -, il cantore autodidatta di romanze, che lascia un insegnamento decisivo: la scrittura nasce analfabeta e inventa la sua grammatica, non si alimenta solo di segni ma della passione di scoprire prima ancora di quella di comunicare e di avere ascolto istituzionale, quello apparecchiato per assicurare una volta per tutte «l’assenza di un destinatario in presenza»; «A chi cantava mio nonno – s’interroga nel racconto l’autore – le romanze che a un certo punto principiò a comporre, mentre badava le pecore e le capre dietro le siepi?».

Appare dunque nella rivisitazione dei personaggi eletti, una litania di profili incerti che tornano vivere e a popolare i luoghi di questa stagione arida di percorsi alternativi. Sia che si tratti di attraversare la geografia dei conflitti, come per la Palestina occupata e costretta nella sua ostinata e inascoltata resistenza o di attendere l’arrivo di cicogne che potrebbero non tornare più nella croata Cigoc, dove pure la guerra intestina nazionalista è passata e ha «vinto», cancellando anche le tracce del naturale internazionalismo degli uccelli.

DA DOVE FUGGE L’AUTORE? Dalla manipolazione del presente che s’accompagna alla cancellazione del passato, a cominciare da quello più prossimo – ricorda il «padre» Fortini -, e dalla scrittura considerata come stanza chiusa delle meraviglie, che viene preservata privatamente come acquisita ed esclusiva bellezza e godimento. Noi però, non parliamo né scriviamo «come le macchine». Questa spia di coscienza introduce alla seconda parte di Fughe, al Discanto, che intreccia gli avvenimenti con i testi classici dati, distillando analisi e ricordi, aprendo al lascito di consapevolezza, perfino di nuova teoria. In un modo che meta-racconta denunciando il «compiacimento letterario». Perché non può esserci nemmeno la forma del compiacimento che per l’autore rischia di essere vissuto come impossibile isola assoluta sulla terra. Il tutto in una costante quanto vicina presenza della natura, avvertita e difesa nei suoi bagliori e profumi prima di essere stravolta.

Il testo a questo punto si dipana non più attraverso i nomi delle persone conosciute in carne ed ossa, ma in una originale elaborazione di apparati critico-interpretativi su scritture e scrittori, a volte conosciuti anche loro «in carne ed ossa», oppure nell’esercizio, personale e didattico, della lettura. Partendo da sé.

PER CHI DI MESTIERE insegna a scuola, «lasciare di sé» è il compito più gravoso se preso al di fuori delle misure e dei limiti istituzionali. Perché la società nella quale viviamo è ormai «senza pensiero» e l’epoca residua è «senza tempo». In Non ho tempo Velio Abati, con Il Manifesto del 1848 alla mano, scrive: «…è l’inversione dei tempi tra produzione e distribuzione: il capitalista ha dovuto prima pagare i fattori della produzione e poi far produrre. È in quell’originario consumo di un frutto futuro il motore della presentificazione in figura dell’avvenire, inghiottito dalla dilatazione del presente. È da quella genesi permanente la progressione ossessiva che divora oggi ai nostri figli terra, acqua, ossigeno, che alimenta il buio delle nostre vite…».

Così, come nella migliore letteratura che ha colto il passaggio delle epoche del mondo, quel che si rivela nelle Fughe, parola dopo parola, è il rumore del tempo. Così, con l’attrezzo di una scrittura da scavo per materiali terragni di risulta, che assomma lo spazio letterario dentro le opere dei giorni e si trasforma in diario, si rinnova il tentativo di rompere lo «schermo nero» che abbiamo davanti, «da tempo» ridotto alla forzatura, agli «obiettivi storici» del sistema delle merci nel quale a stento sopravviviamo.
Ci resta un compito, suggerisce l’autore, necessario ma disarmato: ascoltare il dolore, anche quello più muto.