Quando ti piace ballare arriva sempre il momento in cui l’istinto e l’estro non ti bastano più e senti il bisogno di apprendere la tecnica. Ma quale? Si fa presto a dire «Mi iscrivo a un corso di ballo», però le variabili da considerare sono così tante che passare alla pratica non è scontato. Scartai subito la danza classica per evidenti limiti di età e di costanza. Inoltre era un sogno di bambina e, come spesso succede, con il tempo si cambiano un sacco di idee e di gusti. Bisognava poi tenere conto di luoghi e orari dei corsi per incastrare lavoro, figlio, amici e tutte le incombenze del quotidiano. C’era la questione dell’esercizio perché per imparare bene una tecnica serve dedizione e certe danze esigenti come il tip tap, che mi appassionava assai, proprio non si conciliavano con i vicini di casa, tanto meno con quelli che abitavano sotto di me, una coppia di buzzurri astiosi. Non avevo nemmeno voglia di intrupparmi in quei corsi di ballo latino americano dove ti insegnano tre passi da ripetere sempre uguali in gruppi giganti. La scelta arrivò con un volantino che promuoveva un corso di tango argentino per il quale non era nemmeno richiesto di presentarsi in coppia. Non avendo io da portare un compagno di danze, e adorando Astor Piazzolla, non ci pensai due minuti e mi iscrissi.

GIÀ MI VEDEVO roteare come una novella Sally Potter in Lezioni di tango e con le valigie pronte per Buenos Aires. La distanza fra le velleità e il reale si palesò al mio arrivo quando l’insegnante, il noto Victor Hugo (si chiama davvero così e di cognome fa Del Grande) guardò le mie scarpe maschili con la suola di gomma e, siccome era gentile, si limitò a dire che non erano l’ideale per scivolare sulle piastrelle. Lo sapevo, ma pioveva, ero di fretta e non ci avevo nemmeno pensato. Scoprii lì che c’è tutto un mondo di calzature da tango che, al di là di stili e colori, hanno una cosa in comune, la suola di pelle di bufalo, un pelosino indispensabile se si vuole roteare come libellule. Alla seconda lezione mi resi conto che, se le scarpe potevi comprarle in pochi minuti, la stessa cosa non si poteva fare con il maschio tanguero.
Nei balli di coppia c’è una regola imprescindibile: è lui a guidare. Nel tango argentino tale prassi è ancora più vera. Lui dirige con la mano appoggiata sulla schiena di lei premendo ora sulla punta delle dita, ora con la parte vicina al polso e con piccole pressioni che lei deve sentire e interpretare all’istante. Per contro lei non è passiva, tutt’altro, perché ha ampi spazi di manovra mandando messaggi con le braccia, il busto, le spalle, resistendo e anche per questo il tango argentino diventa un dialogo fra due potentati. Certo, nella camminata lei procede sempre all’indietro e lui sempre in avanti, ma poi le possibilità di inventare sono infinite ed è questo che fa del tango argentino un’arte e non una semplice danza con figure fisse. Questa era la teoria che Victor Hugo ci spiegò all’inizio. Guardai i miei compagni di corso. La maggioranza erano donne, ma pazienza, anche una donna può guidare. Per farci abituare a ballare con partner diversi Victor Hugo ci abbinava a disabbinava, insisteva, ci mostrava cosa fare e come farlo, a volte si sostituiva lui al compagno di turno e…lo dico? Lo dico. Fu una gigantesca frustrazione. Quei poveretti ci provavano a mandarci messaggi con quella benedetta mano sulla schiena, ma ne erano del tutto incapaci. Anzi, erano così insicuri che chiedevano in continuazione alle rispettive dame «Vado bene?». Mi sembrava di avere un gatto morto sulla zona lombare per cui finiva che andavo dove volevo io e loro seguivano, ovvero l’esatto contrario di quello che bisognava fare. Victor Hugo mi diceva «Non tirarlo. Seguilo» il che equivaleva a restare per dieci minuti sulla stessa mattonella. Non parliamo poi dell’arte dello scivolare, ovvero la capacità di muoversi in orizzontale senza andare su e giù con le ginocchia. Niente, era tutto uno scossone e tornavo a casa schiantata dalla delusione. Non terminai il corso e fu per me una cocente disfatta che tentai di superare iscrivendomi a un corso di danza africana. Lì almeno si ballava da sole e ognuna era responsabile di se stessa.

L’INIZIO fu folgorante. Eravamo circa sessanta, quasi solo donne e scatenate. In fondo alla stanza c’era una sezione di tamburi e bongo suonati da certi marcantoni niente male. Noi dovevamo partire dall’altra estremità della sala e avvicinarci a loro seguendo il ritmo con tipici movimenti tribali, ovvero: ginocchia leggermente piegate che vanno su e giù spostandosi anche di lato, busto in avanti che ondeggia simulando il movimento di un serpente, collo che lo segue, braccia che si allargano e chiudono come ali di un uccello e il tutto da muovere insieme. Insomma, è uno scuotimento totale che parte dalle caviglie e arriva alla testa in sequenza sussultoria e ondulatoria. Dopo tre sere mi vennero il mal di schiena e la sciatica. L’osteopata mi sistemò, ma capii che non avevo né la snodabilità né la resistenza di un’africana, e nemmeno più l’età per shakerarmi così. Mi dispiacque molto abbandonare i suonatori di bongo e tamburi perché quella selvaggia danza di avvicinamento era davvero un gioco della seduzione reciproca che noi, pallidi e legnosi europei, abbiamo dimenticato di possedere e coltivare.

IL TERZO corso non lo scelsi per folgorante passione, ma per curiosità professionale. Non fu facile trovare a Milano un’insegnante di lap dance, ma alla fine la individuai. Dava lezioni in una specie di scantinato dalle parti di viale Monza. Volevo capire e vedere da vicino sia quella danza tanto amata dai frequentatori di locali notturni, sia le donne che la studiavano. Eravamo in tre: io, una giovane che sembrava un’educanda e una che voleva dimagrire. Il palo era lì, lucido e liscio e la prima cosa che l’insegnante ci disse fu: «Gambe nude e non incremate sennò scivolate e non state su. Serve la presa». Il primo esercizio fu di roteazione. Dovevamo tenerci attaccate con una mano, distanziare il busto e allacciare il palo con un ginocchio girandogli attorno. Cascammo subito come tre sacchi di patate. Informo gli spettatori di lap dance che ciò che a vedersi sembra facile e leggiadro richiede braccia, schiena, addome, bacino, glutei e cosce d’acciaio. Che per reggersi a quel palo con un arto solo ci vuole la forza di una ginnasta abituata a fare anelli e parallele. Che se non hai la power house, ovvero i muscoli del bacino, sodissimi resti appesa, ferma e aderente come un pollo morto. Che nell’agguantamento del tubo la pelle delle gambe sfrigola e scricchiola provocando lividi come se ti avessero presa a morsi. Di conseguenza, che dietro ai sorrisi e agli abiti succinti di una lap dancer si nascondono donne che potrebbero farvi secchi con uno schiaffo o strangolarvi con un giro di cosce.

NOI TRE ALLIEVE eravamo affrante dal lavoro da fare. Rese complici e solidali dalle articolazioni che scricchiolavano, un giorno uscendo feci un pezzo di strada con la simil educanda. «Tu come mai hai scelto questo corso?» le domandai. Mai mi sarei aspettata di sentire ciò che mi disse. «Vivo in un pensionato di suore perché avrei la vocazione». «Avresti o hai?». Esitò, mi guardò da dietro gli occhiali e partì la confidenza. «Vorrei farmi suora, ma mi ha sempre attirato anche il mondo della lap dance. La mia guida spirituale mi ha suggerito di provare a fare questo corso per chiarirmi le idee perché non c’è niente di peggio di una suora poco convinta, ha detto, e così eccomi qui». «Beh, sono due mondi molto diversi», buttai lì. «Eh già». «E che cosa ti piace della lap dance?». «L’essere sul palcoscenico, guardata e desiderata da tanti uomini». «Mmmm – dissi dopo un lungo silenzio – in convento avresti solo Gesù che ti guarda e non sarebbe nemmeno in carne e ossa. Dovresti lavorare molto di fantasia». «Eh sì – fece lei – è un problema».

NON HO MAI SAPUTO come è andata a finire perché dopo tre lezioni ho smesso. Troppi lividi sulle gambe e poi dovevo solo scrivere un articolo, non decidere se darmi al convento o a una masnada di occhi maschili. Potrei tuttavia scommettere, sicura di vincere, che la Chiesa ha perso una suora. Le vie della lap dance sono davvero infinite.

3. continua