Torniamo sui Pandora Papers con le valutazioni della stampa internazionale, che mettono a fuoco questioni importanti. La regolamentazione della fiscalità internazionale avviata nel 2008 e passata attraverso le tempeste di Luxleaks del 2014, dei Panama Papers del 2016 e dei Paradise Papers del 2017 ha certo portato, con ritardo, qualche limitato frutto, come testimonia ora anche l’accordo sulla tassa minima sulle multinazionali; ma anche questo provvedimento, come i precedenti, è piuttosto debole ed è poi soggetto ad una incerta approvazione da parte dei parlamentari Usa. Thomas Piketty, su Le Monde (11 ottobre), sottolinea come il sistema fiscale resti alla fine ancora violentemente regressivo. Come al solito: molto a pochi.

E i frutti sono perversi. I Pandora Papers evidenziano che mentre sembrano regredire le frodi più grossolane, praticate con la complicità di Stati deboli, la finanza si è adattata e ha rivolto la sua domanda di protezione ai Paesi più forti, a cominciare da Usa e Gran Bretagna. Un editoriale della Direzione e un articolo a firma Isabelle Mandraud su Le Monde (7 ottobre) sottolineano il doppio ruolo giocato dagli Stati Uniti. Il commento del portavoce della Casa Bianca alle rivelazioni è stato quello di riaffermare l’impegno di Biden in favore di un sistema fiscale più trasparente e più giusto a livello nazionale e mondiale. Ma pur spingendo per una regolazione più forte quando questo è nell’interesse del paese, afferma il quotidiano, d’altro canto esso ospita in tutta impunità dei paradisi fiscali. Biden è stato per 36 anni rappresentante al Senato dello Stato del Delaware, ma le pratiche molto opache di tale Stato, come di quelli di Nevada, Alaska, New Hampshire e soprattutto del Dakota del Sud (che copriva con il segreto nel 2020 367 miliardi di dollari), appaiono evidenti dal rapporto. Siamo così a l’arroseur arrosé dei fratelli Lumière.

Per la Gran Bretagna, su Il Fatto Quotidiano (6 ottobre) è apparsa un’intervista a Susan Hawley, che guida «Spotlight on Corruption», organismo che si batte per una maggiore trasparenza del sistema locale. Ma Londra ha da tempo stabilito dei centri finanziari off-shore: Isole Vergini e Cayman. Nell’intervista, la Hawley sottolinea poi come Londra sia virtuosa solo sulla carta: in realtà è un epicentro di corruzione globale. Emerge dalle carte la rilevante influenza di giganteschi flussi di denaro di proprietà di corrotti, criminali e mafiosi sulla politica britannica, in particolare sui Tories. L’attivista ricorda inoltre come dopo i Panama Papers il governo avesse costituito una grande task force sul fenomeno, ma finita nel nulla.

E per l’Ue siamo al ridicolo. Come ci informa Jennifer Rankin in un articolo del 5 ottobre sul Guardian, la Ue ha collocato sulla lista nera dei rifugi fiscali solo nove piccoli Paesi, ma il 27 settembre ne ha perfino rimossi tre; alla luce delle rivelazioni dei Pandora Papers, alcuni critici del Parlamento Europeo hanno descritto la decisione come grottesca. Mentre nel continente i super-ricchi continuano ad usare i rifugi fiscali per evitare di pagare le tasse, la gente comune sarà obbligata a coprire il conto del Recovery Fund.

Dobbiamo poi ricorrere ad un giornale russo, Sputnik International (7 ottobre), per scoprire un tema di rilievo: nei Pandora Papers non appaiano né uomini d’affari né politici Usa. Il commento del quotidiano è che per quanto riguarda i ricchi le aliquote fiscali sono così basse nel Paese che non conviene certo ricorrere a vie traverse per non pagare le tasse. Mentre quella reale sui redditi di Warren Buffet è pari allo 0,10%, quella di Jeff Bezos si colloca allo 0,98% e quella di Elon Musk, il più «tartassato» dei tre, al 3,27%; un grave affronto a quest’ultimo. È bizzarro, per l’articolo, che i circa 100 giornalisti impegnati nell’indagine abbiano trovato la corruzione soprattutto nei Paesi emergenti e in parte in Europa, ma per niente negli Usa. Quale coincidenza e quale sorpresa.

Il giornalista racconta che alcune delle persone protagoniste dell’inchiesta Pandora Papers hanno lavorato in passato con le agenzie di spionaggio statunitensi, mentre la società che l’ha gestita è finanziata da importanti attori dell’establishment del Paese. Così l’attendibilità delle rivelazioni ne esce almeno parzialmente menomata.