La presidentessa Sabrina Baracetti, con un inatteso abito lungo rosso a corolla, ha aperto la diciottesima edizione del Far East, dedicandola ai fondatori del festival coreano di Busan (e al festival di Bruxelles) con lo slogan «i festival hanno bisogno di libertà». Diversi film in programma affrontano in effetti il problema del controllo dei media, con il formidabile intreccio di economia e ragioni commerciali da un lato e polizia socio-ideologica dall’altro. The Exclusive: Beat the Devil’s Tattoo della regista coreana Roh Deok è un thriller ironico con un giovane reporter televisivo a un passo dal licenziamento e dal divorzio, che incappa nello scoop di una vita: le tracce per stanare un serial killer. Dopo questo servizio, che in realtà è una falsa pista, lo share cresce a dismisura e gli altri giornalisti, come un’orda impazzita, lo rincorrono ovunque, intralciando le investigazioni.

Il serial killer stesso si invaghisce della dimensione letteraria che la sua figura va assumendo e cerca di adeguarvisi, ma come in Seven, tra le sue prede c’è anche la moglie incinta dell’ignaro reporter. Ricerca dei fatti e loro rappresentazione diventano sempre più confusi, tanto che nel finale una vittima viene scambiata per il killer e il pacioso criminale, che non ha il phyisique du role del serial killer, per la sua vittima. In un dialogo sulla deontologia professionale tra i gestori della rete televisiva e il reporter i manager sottolineano che a loro non interessa la verità, perché «i media offrono la cronaca e sta poi al pubblico decidere quale sia ’la verità’». Un apologo cinico che convince però anche il disorientato giornalista, il quale decide di non indagare sulla vera paternità della figlia che sua moglie ha nel frattempo partorito.
Della competizione feroce all’interno dei media tratta anche Bakuman del giapponese One Hitoshi (autore di Be My Baby), attualmente campione di incassi nel suo paese, in cui due ragazzini delle superiori disegnano un manga di successo, in competizione con un solitario e geniale coetaneo, che è sempre in vetta alle classifiche.

I due stanno per soccombere per la fatica di reggere la pubblicazione settimanale, ma con l’aiuto dei loro colleghi, secondo il motto «amicizia, sacrificio e trionfo» arrivano primi nella classifica di vendite: presto però vengono dimenticati per altri eroi e altri disegnatori, eppure non demordono e, finiti gli studi, sognano di realizzare un manga davvero innovativo. In effetti anche se la solidarietà fra artisti fa la sua apparizione momentanea, la crudeltà di un sistema che macina energie e creatività nel solo interesse della casa editrice prevale, confermando uno spirito competitivo e di sacrificio nella cultura giapponese del lavoro che per noi resta incomprensibile.

È interessante comunque il modo in cui il film mostra in dettaglio il modo di produzione dei manga, quasi un documentario sulla leggendaria casa editrice Weekly Shonen Jump, la cui bizzarra redazione è stata sapientemente ricostruita, e che racconta la rivalità tra i due amici e l’indomabile concorrente in una animazione manga in bianco e nero, che conferma il lato dark di questo mondo. Come si dicono gli autori non si può ignorare il fatto che il bassissimo tasso di natalità del paese non garantisca un gran futuro a questo prodotto. Due film sulle comunicazioni che conferiscono al «pubblico» un ruolo non certo rassicurante nell’economia dei media, se con questo si intende il successo commerciale, ma allo stesso tempo vanno dietro le quinte e giocano di ironia e di guizzi autoriali.

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Altri film di queste prime giornate affrontano invece temi storici, come il magniloquente Tiger, spettacolare film d’apertura di due ore e venti (che avrebbe beneficiato di una scorciatina) ambientato durante l’occupazione giapponese della Corea (che durò dal 1905 al 1945). Un folle generale nipponico vuole sterminare le tigri coreane e in particolare catturare il Re della montagna (sacra). Con grande sproporzione di mezzi e utilizzando truppe addestrate in precedenza per combattere la resistenza coreana, il generale devasta la montagna e perde gran parte delle sue truppe, ma non riesce a catturare il Re, mentre un saggio vecchio cacciatore coreano, cui la tigre ha straziato la moglie, si rifiuta di partecipare alla caccia e muore con lei- una «mitologia delle origini» alla Revenant, troppo innamorata delle nevi e dei paesaggi boscosi che si trasformano in cartoline, piuttosto che fungere da sfondo epico alla vicenda; discreta la tigre meccanica che imperversa nella parte finale del film.

Del successivo capitolo della storia coreana tratta A Melody to Remember, ambientato durante la guerra di Corea, che narra la storia vera di un coro di bambini, organizzato per sfamare e accudire gli orfani rifugiati, instillando in loro l’amore per la musica tradizionale, nella drammatica spartizione territoriale imposta dalla guerra fredda, che divise il paese in due zone di influenza, una sovietica e l’altra americana. Il film, che mostra la violenza della guerra e della criminalità che sempre si annida tra i disperati, si avvale di una recitazione efficace degli sciuscia’ coreani, e si chiude con un appello alla pace, ricordando che la Corea è ancora una nazione divisa in due.

Da Hong Kong un altro film che sceglie un contesto storicamente simbolico: la fine del protettorato inglese e il passaggio alla Cina nel 1997, Trivisa, prodotto da Johnnie To (che ha firmato anche la nuova sigla del festival). Tre giovani registi hanno girato tre corti su tre famosi criminali della Hong Kong del periodo, incentrati sui tre «veleni» del buddhismo: avidità, odio e illusione, componenti essenziali delle attività di questi pittoreschi fuorilegge, che progettano un grande colpo insieme prima del passaggio alla Cina, dando vita a un noir complicatissimo che sfida la comprensione, in un’atmosfera cupa di incertezza e disillusione.