«Lettor mio, hai tu spasimato?». «No». «Questo libro non è per te». L’avvertenza con cui Cesare Cantù apre nel 1838 il suo Margherita Pusterla, è chiara: chi non sa fremere, indignarsi, commuoversi a ogni pagina, farà bene a tenersi lontano da quest’opera più vicina a Manzoni che a Ponson du Terrail, ma non sprovvista degli elementi che, notava Gramsci, stabiliscono punti di contatto tra il classico romanzo ottocentesco e la letteratura popolare.
Non a caso Umberto Eco e Cesare Sughi scelsero l’epigrafe di Cantù per la copertina di Cent’anni dopo, Almanacco Bompiani del 1972 – firme illustri, un’azzeccata collazione di testi e la grafica di Bruno Munari e Aurelia Raffo – dedicato al ritorno dell’intreccio «a ruota libera». E come parlare della trionfo della trama se non partendo dal feuilleton, che, prima in Francia e poi in Italia, nella seconda metà dell’ottocento veniva pubblicato in appendice ai giornali, per poi migrare in sostanziosi volumi illustrati? Nell’Almanacco sono i brani di autori francesi a prevalere, ma gli italiani non mancano e il loro capofila è una donna, in pratica l’unica scrittrice presente nel volume: Carolina Invernizio, «onesta gallina» secondo la notissima definizione gramsciana, «conigliesca creatrice di mondi» o «impudente scombiccheratrice di carte» a parere di critici irridenti, cui col tempo sono subentrati studiosi attentissimi che ne hanno dissezionato con cura l’opera sovrabbondante (centotrenta romanzi, racconti, libri per ragazzi), riuscendo quasi ad eguagliarne la mole.

INVERNIZIO è, del resto, un’autrice inevitabile, ancor più che imprescindibile (e lo sapeva bene Umberto Eco, che di lei scrisse ampiamente), i cui testi, apparsi a puntate su giornali come La Gazzetta di Torino, a partire dal 1884 furono pubblicati con enorme successo da Adriano Salani, astuto fiorentino che costruì per la nuovissima Italia un catalogo popolare ed economico dalla veste solida ed elegante.

Anche se nel 1937 Mario Salani, nipote bigotto di Adriano, decise di rinunciarvi, i romanzi di Invernizio non sono mai scomparsi dall’orizzonte dei lettori, rispuntando di continuo presso una miriade di editori grandi e piccoli, come Lucchi (l’ultimo dei colporteur) che per anni li offrì a poche lire, con vistosi tagli e ingenue copertine a tinte forti, fino agli Editori Riuniti (Nero per signora, curato da Riccardo Reim nel 1986 e prefato da Edoardo Sanguineti, è una preziosa antologia di racconti da recuperare), a Mursia e all’Einaudi, dove Il bacio di una morta approdò nel 2008 a cura di Luca Scarlini.

TRA I MAI DIMENTICATI titoli inverniziani ce n’è tuttavia uno che, apparso nel 1909, raramente ripubblicato e ben poco studiato, riaffiora soltanto oggi, dopo molti e molti anni: Nina la poliziotta dilettante (pp. 400, euro 14), appena uscito nella collana Libertarie di Rina Edizioni, piccola impresa romana che intende recuperare testi dimenticati di scrittrici novecentesche «estromesse dal canone letterario», come ricorda l’ambiziosa dichiarazione di intenti acclusa a ciascun volume (tra le autrici riproposte, l’anarchica Virgilia D’Andrea e la gloriosa Matilde Serao).

Eppure il romanzo – affollato di personaggi, ricco di sottotrame e punteggiato di amabili incongruenze – è di particolare interesse, non solo perché conferma la capacità di catturare il lettore ancora oggi dimostrata da Carolina, ma perché disegna la prima figura di donna-detective della letteratura italiana ed europea (anche se è vero che E.T. Hoffmann ne aveva già collocata una al centro di un suo racconto quasi poliziesco, La signorina de Scudéry) e precede di diversi anni la spagnola Emilia Pardo Bazàn, grande scrittrice che si divertì a produrre una quindicina di racconti alla Conan Doyle, e la stessa Agatha Christie, il cui debutto come crime writer avvenne nel 1920.

SE È FORSE ESAGERATO chiamare Carolina «La Mamma dei Libri Gialli», come fece Emilio Zanzi in un suo articolo del 1932, e se è vero che nel feuilleton, calderone in cui bollivano generi diversi, delitto e suspense erano tra gli ingredienti principali, bisogna però dire che nei romanzi di Invernizio sangue, veleni, pugnali e colpi di pistola sono davvero abbondanti, mentre titoli come Un assassinio in automobile, La felicità nel delitto, Dora la figlia dell’assassino e Il delitto della contessa potrebbero ancora oggi adattarsi a più di un poliziesco. In Nina; poi, assistiamo a un ulteriore passo avanti sulla strada del giallo, mentre la splendida fanciulla, finta suicida opportunamente travestita, indaga sull’assassinio del fidanzato (un ricchissimo conte così innamorato di lei, giovane e onesta operaia, da volerla sposare).
Ma Nina non è solo la prima delle ormai innumerevoli «poliziotte delle patrie lettere: insieme alla piccola società di amiche che la aiutano e la sostengono, come la contessa Eugenia o l’ex attrice Ranocchia, rappresenta un fulgido esempio dell’eroinismo femminile di cui tutta l’opera dell’Invernizio è intrisa.

Gli uomini (perfino i malfattori più feroci, gli insidiatori di oneste fanciulle, i potenziali incestuosi) sono immancabilmente contrastati, guidati, manovrati, indirizzati dalle donne – decise a vendicare, all’occorrenza, quelle di loro che ne sono rimaste vittime – e pronte, oltre a punire le malefatte di mariti, fidanzati e improvvidi seduttori, a perdonarli e ricondurli implacabilmente in seno alla famiglia.
Ha ragione Eco, quando sottolinea che al Superuomo del feuilleton francese Invernizio sostituisce la Superdonna: e lo fa nel bene e nel male, perché alle meravigliose creature traboccanti di intelligenza e di virtù, come Nina, si contrappone la Maliarda di liberissimi costumi (in questo caso la contessa Delia, libertina pronta a vendere i suoi stessi figli), colei che incarna il disordine, che distrugge focolari, che induce al delitto, e che a differenza del sempre redimibile maschio non verrà perdonata, ma che evoca una liberatoria, sfrenata trasgressione agli occhi delle lettrici.
Lettrici, va ribadito, e non lettori, perché Carolina scrive consapevolmente per le donne, offrendo loro la possibilità di vivere l’avventura e imboccare strade che le portano fuori dalla prigione domestica, per poi ricondurvele, ma da trionfatrici, ristabilendo un ordine che è solo in parte identificabile con quello patriarcale, come accade appunto in Nina, dove si formano o si ricostruiscono coppie e famiglie fondate su finzioni e false identità decise a fin di bene da una cerchia femminile riparatrice e, a ben vedere, serenamente amorale.

NON MANCANO, è ovvio, il trionfo dell’amore e un fastoso matrimonio: l’autrice non poteva rifiutare alle sue «gentili lettrici» questa consolazione, ma a dimostrare la sua comprensione dei tempi, o semplicemente il suo fiuto commerciale, c’è la scelta di accostare e confondere ceti sociali diversi (operaiette, saltimbanche, gentildonne) e di narrare la tenebrosa Torino dei quartieri poveri o malfamati, la stessa che possiamo intravedere in certi passi del Cuore deamicisiano, e che ci ricorda come si fosse in epoca di rivolgimenti sociali, ma anche dell’affermarsi incondizionato del fait divers. Era, la nostra Carolina, una donna d’ordine, una signora borghese, la sposa devota di un ufficiale dell’esercito, ma guardava il mondo con occhi privi di illusioni, e, soprattutto, sapeva quello che faceva.