Non poche stranezze segnano la tredicesima elezione presidenziale. La prima è la certezza che l’approdo al Quirinale per Draghi rappresenti una promozione, a cui sarebbe impossibile rinunciare.

Certo, non c’è dubbio che il prestigio personale assicurato dal ricoprire la carica di Capo dello Stato sia inarrivabile, e comunque di molto superiore a quello promanante dalla Presidenza del Consiglio dei ministri. Ma si può dire che lo stesso valga in termini di gestione del potere? A leggere la Costituzione italiana, e a osservarne la concreta applicazione, si direbbe proprio di no. Il Presidente del Consiglio è, assieme al governo, il principale fautore dell’indirizzo politico ed è colui che più di tutti può determinare non solo l’attività di esecuzione e applicazione della legge – a partire da quella finanziaria – ma, a causa delle torsioni impresse alla forma di governo negli ultimi decenni, anche la stessa attività di produzione della legge.

Non sembrano elementi da poco, specie in epoca di Pnrr. Il modo in cui sarà spesa l’enorme quantità di risorse arrivate dall’Europa segnerà il volto dell’Italia nei decenni a venire e non è affatto vero che tutto sia già stato definito: l’adozione dei decreti legislativi previsti dalle deleghe sinora approvate implica lo svolgimento di un’attività, anche normativa, delicatissima.

Sotto questo profilo, l’ultimo anno della legislatura si annuncia come il più importante ed è sorprendente che colui che attualmente è nella condizione di viverlo da protagonista preferisca rinunciarvi. La seconda stranezza deriva dalla prima e si compendia nella tesi che se l’attuale Presidente del Consiglio venisse eletto alla Presidenza della Repubblica ciò non comporterebbe, secondo le previsioni costituzionali, la sua sostanziale estromissione dalla definizione dell’indirizzo politico, ma, al contrario, la sua ancor più salda presa sullo stesso.

L’idea è che l’ascesa di Draghi al colle più alto dovrebbe avvenire lasciando pressoché immutato il resto del quadro politico: immutata la maggioranza parlamentare, immutata la compagine governativa, immutata nella sostanza anche la guida dell’esecutivo. A Palazzo Chigi dovrebbe andare una figura tecnica, che di Draghi possa risultare la più simile riproduzione. L’ideale sarebbe Daniele Franco, il fedelissimo ministro dell’Economia, ma qualunque altro tecnico potrebbe fare all’occasione: l’importante è che sia politicamente debole, così da doversi affidare alla legittimazione proveniente non dal Parlamento, ma dalla Presidenza della Repubblica.

C’è chi, a proposito di questo scenario, ha parlato di semipresidenzialismo di fatto. Sarebbe forse più appropriato definirlo, invece, iperpresidenzialismo, del momento che nessun contropotere verrebbe, a quel punto, a configurarsi come bilanciamento all’iper potere quirinalizio.
La terza stranezza è la pretesa, ascritta da molti commentatori al Presidente del Consiglio in carica, di essere lui, qualora non eletto al Quirinale, a determinare il successore di Mattarella. Si legge che egli rimarrebbe al suo posto, ingoiando il rospo della mancata promozione, soltanto a condizione di un Mattarella bis o di una presidenza Amato.

Impossibile sapere quanto vi sia di vero in queste voci, ma è curioso anche solo che se ne parli. Da quando in qua è il Presidente del Consiglio a nominare il Presidente della Repubblica? La Costituzione sancisce l’esatto contrario e c’è un solo organo che ha diritto di parola sull’elezione presidenziale: il Parlamento integrato con i delegati regionali. Possibile sia debole al punto da farsi così radicalmente condizionare nella decisione sul futuro Capo dello Stato dall’inquilino di Palazzo Chigi?

Infine, la quarta stranezza è legata all’inusuale pretesa di eleggere come Presidente della Repubblica il Presidente del Consiglio in carica. Non è un caso che lo scenario sia del tutto inedito.

Oltre alle rilevantissime difficoltà procedurali – legate al passaggio delle consegne, alla figura cui assegnare la gestione degli affari correnti, alla nomina del nuovo Presidente del Consiglio incaricato – è sul piano sostanziale che il rischio di cortocircuito è altissimo, dal momento che il nuovo Capo dello Stato si ritroverebbe stretto in una morsa diabolica: infliggere una menomazione al proprio ruolo, lasciando che a gestire la transizione sia il Presidente uscente, o infliggere una menomazione alla Costituzione, di cui dovrebbe essere il garante, nominando il successore di se stesso? Una inevitabile sovrapposizione testimoniata dalle inusuali consultazioni sul nuovo governo attribuite a l presidente Draghi.