«Amo la fotografia, ma non fino al punto da farne un unicum.» – precisa subito Mario Cresci (Chiavari 1942, vive e lavora a Bergamo) – «Ho sempre avuto il desiderio di commistione di segno e immagine. Disegni incisi, impronte sulla creta, disegni su carta, disegni in camera oscura… Tutte queste tecniche di produzione visiva di segni e immagine non sono ottenute solo attraverso la fotografia. Proprio come faceva Man Ray e gli altri protagonisti delle avanguardie storiche.» L’incontro avviene alla galleria Matèria di Roma che ospita la sua personale Combinazioni provvisorie (fino al 31 ottobre), accompagnata dal testo critico di Mauro Zanchi, con le opere Analogie e memoria (1967-1979) e l’installazione Cronistorie (1970). Una mostra realizzata in collaborazione con l’Iccd – Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione di Roma che, contemporaneamente, presenta L’oro del tempo a cura di Francesca Fabiani. Curioso e insaziabile sperimentatore di linguaggi artistici, come emerge anche dal suo ultimo libro Segni migranti. Storie di grafica e fotografia (Postcart 2019), menzione d’onore al Premio Marco Bastianelli 2020 – Mario Cresci si muove all’interno di un percorso autoriale che si svincola da confini e categorizzazioni, dando spazio all’approccio teorico e pratico con la medesima carica d’inventiva, tra analogie e ludiche trasgressioni.

Due intere pareti della galleria sono ricoperte di fogli, appunti, disegni, tracce di memoria, come nasce l’opera «Analogie e Memorie» (1967-1979)?
È un’idea nata nel mio studio, nella mia raccolta di materiali a Matera, all’inizio degli anni ‘80. Ho sempre avuto l’abitudine di conservare i ritagli di vecchie fotografie, anche fatte da altri, i disegni e tutto ciò che m’interessava a livello di icona. C’era anche il materiale d’elaborazione che facevo per me – disegni, schizzi, appunti – e che poi mettevo nei cassetti. Essendo ligure avevo questo senso del risparmio che, probabilmente, mi ha aiutato nel non buttar via! (ride) A parte gli scherzi, nel corso degli anni si erano accumulate molte cose. In sintesi è successo che ho deciso di mettere un po’ di ordine in quel caos, iniziando a tirare fuori fogli, foglietti, fotografie e metterle sul piano della fotocopiatrice che, prima dell’avvento dei primi Mac, era fondamentale soprattutto per i lavori di grafica. Avevo l’idea di fare un libro di grande formato, diciamo un libro-giornale con le immagini che scorressero come in Matera. Immagini e Documenti (1975). Un grande album personale di appunti che non aveva alcuna presunzione artistica, realizzato solo per pura curiosità. Ma notai che nel fare questo lavoro, ad un certo punto, potevo anche intervenire con la matita e la tempera sulla fotocopia che diventava l’originale. Infatti una volta che si mettono i fogli sul piano della fotocopiatrice, si fa la fotocopia e poi si tolgono quei fogli, rimane solo la fotocopia che per me, appunto, diventata l’opera originale.

Per la mostra «L’oro del tempo», invece, lei ha realizzato interventi sulle foto del fondo storico di Mario Nunes Vais dell’Iccd e delle sculture greco-romane dell’archivio del Gabinetto fotografico nazionale. In questo contesto come si pone la sua operazione?
Si pone un po’ sulla falsariga della fotocopiatrice. Si è trattato di usare un materiale che non nasce da un mio progetto, ma utilizza la memoria altrui. Mi incuriosisce molto la lettura di un’altra opera, come ho già fatto in passato con Caravaggio o Piranesi. È come entrare nella materia della fotografia e dell’immagine. Un processo che mi ha portato ad una leggera deviazione, rispetto a quando fotocopiavo disegni o fotografie che avevo ripreso anche dai libri e ci disegnavo sopra. L’andare con la carta da lucido sull’immagine e ridisegnarne i contorni con la matita, come fanno i bambini, era un’emozione. Ogni disegno mi faceva pensare non solo alla fotografia, anche al fotografo che l’aveva fatta, Cartier-Bresson, Koudelka, Carjat, Nadar… (indica la copertina di Copia di Copia, catalogo della sua mostra del 1987 con l’interpretazione delle gemelle Cathleen e Colleen Wade nel celeberrimo scatto di Diane Arbus -ndR), per cui in ogni fotografia c’era una sorta di scoperta del segno. Disegnavo su piccoli fogli di carta da lucido, poi c’era il passaggio della fotocopiatrice o della reprocamera, che allora si usava per la riproduzione, ingrandimento o riduzione di originali opachi e trasparenti. Oggi non uso più la fotocopiatrice che produceva un’immagine molto contrastata, ma lo scanner che legge la materia della grafite in maniera diversa, meno appiattita. Dalla scansione viene, poi, realizzata la stampa digitale su carta cotone.

Ha citato grandi fotografi del passato, che importanza ha avuto lo studio della storia della fotografia frequentando le lezioni di Italo Zannier al Corso superiore di industrial design di Venezia?
Zannier era un ottimo insegnante di una fotografia canonica molto attenta alle tecniche antiche, però non ha mai parlato di Andy Warhol o della fotografia usata da Rauschenberg. Gli devo sicuramente il piacere della conoscenza della storia della fotografia e del non avermi portato a far parte dei circoli fotografici. Nel 1960, terminato il liceo artistico a Genova, andai a Venezia con una borsa di studio in quella scuola di Industrial Design che era stata aperta pochi anni prima. La fotografia mi incuriosiva, ma non mi interessava più di tanto perché ero bravissimo a disegnare e dipingere. Frequentando quella scuola ho dovuto rivedere il senso dell’essere artista oggi che non vuol dire più saper disegnare bene. È qualcos’altro. Ho studiato la Bauhaus, Maurice Merleau-Ponty, Gombrich e Rudolf Arnheim. Diversamente da Guido Guidi che è arrivato a Venezia un anno dopo di me e che, come Ghirri, rimane dentro la fotografia, io ne sono sempre uscito fuori. Fu proprio Luigi (Ghirri), ad un certo punto, a chiedermi perché odiassi la fotografia. «Non odio la fotografia, la voglio contaminare», gli risposi e aggiunsi: «tu sei un purista, io solo un pasticcione». Si mise a ridere. Aveva capito il mio pensiero, tanto che mi invitò a pubblicare il libro I grandi esclusi con la sua casa editrice Punto&Virgola che però non si fece più.

A Roma nel ‘68 ha frequentato la scena dell’arte contemporanea con Pino Pascali, Eliseo Mattiacci, Kounellis…
Roma fu un’esplosione per il rapporto con la politica, gli artisti, le gallerie. Fu fondamentale soprattutto frequentare Pascali, Mattiacci, Mara Coccia, Sargentini. Ero sempre senza una lira, ma vivevo nello studio di Mino Maccari in via del Leoncino, che mi ospitò per sei mesi. In cambio gli davo una mano con l’archivio. Anche il rapporto con lui fu fantastico, perché era di una simpatia e di un’intelligenza sublime. Da Sargentini, poi, conobbi Pino Pascali e vidi nascere le sue mostre. Insieme a Luca Maria Patella, fotografai per Cartabianca anche tutta la scena del suo funerale. Ma la mostra clou fu Il percorso – il 22 marzo 1968 – organizzata da Mara Coccia (allora direttrice della Galleria l’Arco d’Alibert – ndr), che aveva invitato tutti i poveristi, i torinesi Anselmo, Boetti, Merz, Mondino, Nespolo, Paolini, Piacentino, Pistoletto e Zorio.

Ricordo che Boetti stava realizzando i suoi totem (tre Colonne), alti circa due metri, con migliaia di tovagliolini di carta smerlata da pasticceria, infilati sulle strutture di ferro. Faceva cadere questi fogli uno ad uno. Io, intanto scattavo le foto. Quando si accorse che stavo fotografando mi disse: «vieni un po’ qua, mi dai la macchina fotografica?» «Sì, certo», gli risposi. «Tu prendi il mio posto ed io il tuo. Facciamo uno scambio.» Salii sulla scala e presi il suo posto. Tra le foto che scattai ce ne sono un paio che mi fece Boetti. Quando scesi dalla scala gli chiesi perché facesse cadere i fogli di carta uno alla volta, quando avrebbe fatto prima se li avesse messi a blocchetto. Mi guardò e mi disse che non avevo proprio capito nulla. «Ogni volta che faccio un gesto, penso. Penso alla mia vita, agli amici, a tante cose». «Ah, adesso ho capito», gli dissi. Lui si mise a ridere, capì che effettivamente avevo capito. Quando uscii dalla galleria pensai che lì stava la differenza, un’operazione d’artista è un’altra cosa. Il fotografo guarda, coglie, costruisce l’immagine, l’artista invece sta dentro l’immagine, produce, entra nella materia. È una dimensione sensoriale totalmente diversa, come insegna Duchamp. L’arte è qualcosa che tocca tutto il pensiero.