«Crescita e uguaglianza stanno diventando sempre meno conciliabili nelle democrazie avanzate?». È questa la fondamentale domanda di ricerca che ha guidato il lavoro di un ampio gruppo di studiosi, ora pubblicato in un volume curato da Carlo Trigilia (Capitalismi e democrazie, Il Mulino, pp. 568, euro 38). Se fino alla fine degli anni Settanta le economie dei paesi avanzati hanno visto forme di «crescita inclusiva», con una riduzione delle diseguaglianze sociali, dagli Ottanta ad oggi questa forbice è tornata fortemente ad allargarsi.

Sulla natura e sull’interpretazione di questo processo si continua a discutere molto; la ricerca curata da Trigilia parte da questo dato per proporre un’ottica interpretativa originale, che pone sotto osservazione un altro decisivo problema: in che modo, su questo processo di divaricazione tra crescita e uguaglianza, incidono gli assetti politico-istituzionali dei diversi paesi? Esiste una correlazione tra i diversi modelli di democrazia e le forme ed i livelli di una crescita che riduce le diseguaglianze o che, al contrario, le accentua? Le disuguaglianze sono cresciute ovunque: perché in alcune democrazie ciò è accaduto in minor misura? Perché, in alcuni contesti, le politiche agiscono in termini (relativamente) redistributivi, e in altri no?

SIAMO NEL CAMPO disciplinare della political economy: al centro vi sono i diversi modelli di regolazione sociale e istituzionale di un’economia di mercato. E il metodo di ricerca è quello dell’analisi comparata, attraverso quelli che Trigilia definisce «percorsi idealtipici»: ossia, la costruzione di modelli concettuali che organizzano i dati empirici e prospettano una griglia interpretativa che permetta poi di orientarsi nella decifrazione dei diversi contesti (senza smarrirsi nella selva infinita delle loro particolarità storiche). Ciò che alla fine emerge è una classificazione del rapporto e delle combinazioni tra tipi di democrazia, modelli di regolazione istituzionale dell’economia, caratteri qualitativi e quantitativi dello sviluppo, livelli di diseguaglianza sociale.

Per quanto riguarda i dati, i vari capitoli della ricerca, dopo l’ampia introduzione generale del curatore, propongono analisi specifiche sull’ultimo ventennio e nei diversi ambiti (struttura produttiva e governo delle imprese; relazioni industriali; politiche del lavoro, dell’istruzione e della formazione; modelli di welfare); mentre alcuni capitoli e l’intera terza parte sono dedicate agli assetti istituzionali e al rapporto tra politiche e politica. Non è possibile in questa sede dar conto dei vari contributi: possiamo però concentrarci sul cuore della proposta interpretativa e su alcune implicazioni politiche che ne derivano per la sinistra.

L’esaurimento del trentennio post-bellico è segnato da alcuni grandi fattori di mutamento: fine del fordismo, frammentazione e scomposizione del mondo del lavoro, globalizzazione e finanziarizzazione, crescenti tensioni sulla tenuta del Welfare State.

LE RISPOSTE a queste sfide sono diverse, a partire dagli anni Ottanta, e producono diversi modelli di crescita: quello fondato sulla deregolazione (che induce una crescita non inclusiva, e che è propria del mondo anglosassone) e quello che conserva forti elementi di regolazione complessiva, attraverso processi di «riadattamento delle forme di regolazione del capitalismo nordico che si basano su una nuova integrazione fra mercato e protezione sociale», attraverso percorsi di crescita inclusiva e (più) egualitaria. Tra questi due modelli, si collocano le situazioni intermedie, che producono modelli di regolazione dualista in cui i tradizionali meccanismi di redistribuzione agiscono verso alcuni settori sociali, ma non più verso altri. A sua volta, dentro questi modelli «dualisti» vi sono situazioni che garantiscono comunque una crescita inclusiva (la Germania), e casi come quello italiano, in cui alla bassa crescita si unisce un alto livello di diseguaglianza.

EBBENE, È POSSIBILE cogliere una relazione tra questi diversi esiti e il modello di democrazia che li caratterizza? «L’implicazione che possiamo trarre dalla ricerca», scrive Trigilia, «è la rilevanza di una qualità della democrazia che favorisce il compromesso tra interessi del lavoro e delle imprese attraverso una maggiore capacità di rappresentanza del mondo del lavoro e un rapporto meno squilibrato tra capitale e lavoro. Questo assetto politico-istituzionale è costituito da quella che abbiamo chiamato “democrazia negoziale”».

Una «democrazia negoziale» è una democrazia in cui anche l’assetto politico-istituzionale frena o impedisce quello che costituisce un tratto essenziale dell’era «post-democratica», ossia la logica della disintermediazione politica, sociale e culturale. «Democrazia negoziale» è una democrazia in cui trova spazio il pluralismo degli interessi sociali, e in cui anche il sistema delle relazioni industriali è caratterizzato da un sufficiente grado di contrattazione collettiva e di concertazione istituzionale.

LE RAGIONI per cui questo tipo di democrazia può favorire «una redistribuzione che sostiene la crescita» sono legate anche all’esistenza di alcune precondizioni istituzionali; in primo luogo un sistema elettorale proporzionale, che impedisce la logica «centripeta» tipica delle competizioni maggioritarie, «costringe» ciascun partito a individuare e privilegiare una propria, più specifica constituency sociale, e spinge i partiti della sinistra – in particolare – a consolidare innanzi tutto la propria capacità di rappresentanza del mondo del lavoro, partendo da questa base per proporsi di allargarla verso i nuovi settori del lavoro «non protetto” (la galassia del settore dei servizi) o di un “ceto medio» altrettanto frammentato. L’opposto di ciò che hanno fatto, a partire dalla metà degli anni Novanta, molti partiti socialisti o socialdemocratici, ossia cambiare la propria offerta programmatica, sperando di compensare così «al centro» il ridimensionamento della tradizionale base popolare (come spiegano bene i saggi della terza parte del volume).

In Italia, poi, con la nascita del Pd, questa visione strategica si è presentata con tratti molto accentuati, con l’idea del partito «a vocazione maggioritaria», e con i risultati che abbiamo sotto gli occhi: uno sradicamento della rappresentanza popolare della sinistra (e una presenza elettorale oramai minoritaria sia tra i «vecchi» lavoratori manuali che tra quelli «nuovi» dei servizi).

NATURALMENTE, sono molti i temi di discussione, anche più direttamente politica, che solleva questa ricerca. In primo luogo, la risposta ad un interrogativo ricorrente in questi anni (si pensi solo alle tesi di Wolfgang Streeck): c’è «una tendenza generalizzata delle democrazie verso un modello omogeneo di capitalismo deregolato?». Se la risposta è negativa, come sembra, si apre uno spazio teorico e politico per la sinistra: reinventare le forme di una rinnovata capacità politica di regolazione dello sviluppo, dimostrare che è possibile una redistribuzione guidata dalla politica, e che questa via non solo non è distorsiva, ma anzi è oggi l’unica possibile se si vuole una crescita inclusiva.

IN SECONDO LUOGO, il nesso causale tra i processi sociali e la soggettività politica: le analisi presentate nel volume mostrano come le trasformazioni sociali hanno certo creato le premesse di un indebolimento della sinistra, ma non le hanno propriamente «determinate»: al contrario, sono state le risposte politiche e strategiche alle trasformazioni sociali, che hanno eroso il consenso e le basi sociali ed elettorali della sinistra. E queste scelte strategiche, a loro volta, sono state il frutto di una cultura politica che ha introiettato l’egemonia del neoliberismo: da qui bisogna ripartire per invertire la rotta.

Anche il libro curato da Trigilia potrebbe entrare a far parte di un prezioso «scaffale» di idee a cui la sinistra potrebbe far ricorso, nel ripensare la propria visione e la propria identità. Non si può dire oramai che manchino idee e analisi critiche: ciò che manca – specie in Italia – è il soggetto politico, un partito, che le sappia organizzare, farle divenire un patrimonio diffuso e condiviso, cultura e senso comune che animi una battaglia politica… E anche questo problema, prima o poi, andrà affrontato.