«Joe»e «Biden» sono le prime due parole dell’editoriale a firma Susan Faludi apparso sul «New Tork Times» di lunedì. Credere a tutte le donne è una trappola della Destra è il titolo del contributo dell’autrice di Backlash e Stiffed, una delle menti più originali e profonde del contemporaneo femminismo americano; il sottotitolo: Come le femministe sono rimaste intrappolate a rispondere di una fandonia.

L’occasione del pezzo, chiaramente, è data dalla accuse di molestie sporte contro Biden da una ex collaboratrice, che si è fatta avanti adesso, dopo molti anni, e la cui apparizione – in piena campagna elettorale – sta mettendo a rischio la credibilità «femminista» dell’establishment di sinistra e del #MeToo. O almeno così vorrebbero farci credere opinionisti di Fox News come Tucker Carlson («L’ipocrisia delle femministe: credete a tutte le donne, predicano. E poi non lo fanno») e la consigliera della Casa Bianca Kellyanne Conway («Tre parole magiche: credete a tutte le donne. Non pensavo che il motto avesse un asterisco»).

SI TRATTA, sostiene Faludi, avvalendosi di una ricerca capillare effettuata su social e media tradizionali con l’aiuto dell’archivio di Harvard (depositario di 30 milioni di tweet relativi a #MeeToo) di una truffa: #Credere a tutte le donne non è mai stato un motto del movimento femminista, o del #MeeToo ma un hashtag usato per lo più dai loro detrattori. Perché la destra sa bene, scrive Faludi che: «Nella purezza sta il pericolo… Se il pluralismo del movimento delle donne può essere ridotto a quel cliché rigido che si fissa nella mente del pubblico, il futuro di #MeToo avrà molto più da perdere da una singola donna insincera che ha giurato di difendere, che da una carovana di predatori maschi». «Credere a tutte le donne» non è un’amplificazione di «Credere alle donne», ma la sua negazione, dice ancora la scrittrice.

SOLLECITATO dalla prospettiva terrorizzante che la candidatura dell’antagonista democratico venga affossata non da rivelazioni di fatti provati ma da un’implosione interna del sistema mediatico liberal, il pezzo di Faludi – come sempre le sue cose – va oltre, ricordandoci l’effetto autogol della superiorità morale e dell’intransigenza che caratterizzano le guerre culturali antitrumpiste. «Il caso Biden» è stato probabilmente anche motore del pezzo del «New York Times» di domenica, Too Good to Be True, Troppo buono per essere vero, un’analisi critica delle tecniche giornalistiche di uno dei crociati del #MeToo, Ronan Farrow, firmato dal media columnist del quotidiano, ed ex redattore del sito di reportage investigativo «Buzzfeed», Ben Smith.

In realtà, Smith non è stato il primo a sollevare dei dubbi sulle tecniche dell’autore di Catch and Kill. In un’interessante recensione al best seller apparsa sulla «New York Review of Books» del 20 febbraio scorso, Anna Diebel ne aveva già identificato il carattere cospiratorio (una specie di deviazione paranoica del reportage in prima persona storicizzato dal new journalism). Né Diebel, né Smith, va detto, accusano Farrow di aver riportato delle falsità fondamentali. Per Diebel il problema è quasi filosofico: oltre alla vena complottista autocentrica, il manicheismo e la semplificazione del mondo nei reportage di Farrow.

Per Smith, la critica è più diretta al metodo giornalistico. Il lavoro di Farrow rivela, secondo lui «la debolezza di certo giornalismo di resistenza che è fiorito nell’era di Trump: se un reporter si unisce con abilità al flusso delle maree social, producendo informazione dannosa per figure pubbliche poco amate dalle voci più forti, le vecchie regole dell’apertura mentale e dell’equità si trasformano, da imperativi giornalistici, in impedimenti».

L’ARRIVO di due articoli, come quelli di Faludi e Smith, sullo stesso quotidiano (quello del Pulitzer per il reportage del #MeToo), a un giorno di distanza, può essere liquidato come un espediente (per accudire ai guai di Biden), o come il segno dell’inizio di un pensiero critico più profondo da parte di un organo d’informazione che, distratto dalla guerre di cultura, con il suo reportage di resistenza ha involontariamente avvallato prima la sconfitta di Hillary Clinton e, quest’anno, il panchinamento delle due candidate presidenziali a cui aveva dato l’endorsement. Speriamo nella option #2.