La rielezione di Sergio Mattarella ci ha fatto tirare un sospiro di sollievo. Ha quantomeno scongiurato l’eventualità di trovarci con due tecnici, uno a capo dello Stato e l’altro del Governo. L’immagine della politica, in ogni caso, ne esce appannata, offrendo argomenti a chi, dentro e fuori l’Italia, auspica una maggiore presenza tecnica alla guida delle istituzioni. Il settore privato – le grandi aziende, le multinazionali, i detentori di capitale e di rendita – ricorrono da sempre, per condurre i loro affari, a persone altamente specializzate, tecnici e manager appunto. Perché lo Stato non dovrebbe seguirne l’esempio, vista la conclamata incompetenza e l’ignoranza del personale politico, pur con le dovute eccezioni?

Con il termine tecnocrazia si intende la classe dirigente della cosa pubblica, legittimata non in base al principio della rappresentanza elettiva, ma in riferimento alle competenze tecniche e alla capacità di gestione. La questione è seria e non di poco conto. Emanuele Severino ha dedicato pagine potenti e suggestive alla tendenza della tecnica al «dominio». Quando da mezzo diventa scopo, egli spiega, la tecnica si fa potere, governa in modo diretto.

Per comprendere la crescente perdita di ruolo della politica non si può non partire dall’evoluzione del suo rapporto con l’economia e la tecnica. L’inizio del declino coincide con l’affermazione dell’egemonia del neoliberalismo. Nel momento in cui lo studio dell’economia – chiamata «economia politica», come si sa – è assurta al rango di «scienza economica», non avviene solo un cambiamento terminologico, ma uno slittamento concettuale. Se l’economia è scienza esatta, come la matematica, la politica non può che cederle il passo. La politica perde il suo primato. Il rovesciamento tra politica ed economia è compiuto.

La marxiana «critica dell’economia politica», a quel punto, viene trattata come ferro vecchio, sopraffatta da sofisticati scenari macroeconomici costruiti per conferire una patente di validità scientifica al sostegno, incondizionato e aprioristico, alle «magnifiche sorti e progressive» del sistema capitalistico. Salvo verificare la discrepanza tra previsioni, in genere ottimistiche, e la realtà concreta, contraddistinta da crepe profonde. Già nel 2007 nessuno degli economisti della scuola di Chicago ci aveva avvertito del baratro finanziario in cui stavamo precipitando. In quell’occasione è stata clamorosamente smentita la fondatezza scientifica delle analisi econometriche degli illustri professori. Ma si è fatto finta di niente. Lo scossone è stato riassorbito grazie alle innovazioni tecnologiche e agli impetuosi processi di globalizzazione.

Nel frattempo nuove nubi, nere e minacciose, si addensano all’orizzonte. A fronte delle gravi emergenze che stringono il mondo in una morsa, prevale nei governi – non solo il nostro – una visione angusta, parziale e di breve periodo. Questioni come il cambiamento climatico, la pandemia che rischia di replicarsi in altre forme, le disuguaglianze sociali e territoriali, il dramma dei migranti e in ultimo, le tensioni geopolitiche e l’inflazione, sono affrontate con un approccio che privilegia le ragioni del mondo economico. L’attenzione è rivolta a rimuovere gli ostacoli frapposti all’espansione della produzione, del mercato e della finanza. Il bene comune e l’interesse generale non sono contemplati, ma solo retoricamente richiamati.

La politica è dunque debole e subalterna. Non riesce a guardare oltre i confini dell’attuale modello di sviluppo. Ha smarrito visione strategica. E’ incapace di cogliere il nesso che lega emergenze diverse, ma non separate tra di loro. Chiamare in soccorso la tecnica, a questo punto, diviene quasi naturale.

Ai tecnici, in genere suggeriti da organismi sovranazionali, è affidato il delicato compito di garantire la stabilità (lo statu quo), di mettere in ordine i conti, di indirizzare le risorse pubbliche (vedi il Pnrr), di riparare alle inefficienze e ai guasti del settore privato. La tecnica al comando, da un lato serve a mascherare e nascondere il rapporto di causa-effetto tra sviluppo capitalistico ed emergenze e, dall’altro, alimenta l’illusione che la crescita economica sia sufficiente a vincere le grandi sfide del nostro tempo.

Il ruolo delle élites è salvo come pure la «democrazia dei signori» (dal felice titolo dell’ultimo libro di Luciano Canfora). La politica è depotenziata. Dei partiti – avulsi dalla realtà e tanto screditati da indurre metà dei cittadini a non esercitare il diritto di voto – rimane solo una parvenza, un guscio vuoto. Il problema è che partiti in caduta libera accelerano il logoramento delle istituzioni e di una corretta dialettica democratica. I social non sono certamente sufficienti a sopperire all’impoverimento culturale e sociale della vita politica. La piazza virtuale non sostituisce quella reale. E così, nuove architetture istituzionali rappresentano pericolose e velleitarie fughe in avanti. Il «vuoto della politica» riguarda innanzitutto la parte debole e sfruttata della società. Il punctum dolens è tutto qui. Non mancano i partiti, manca il partito.