Rembrandt, “Omero”, part., L’Aja, Mauritshuis, opera già appartenuta ad Antonio Ruffo

Siamo passati, grazie alla penna di Stefano Pierguidi, dalle stanze caravaggesche di Palazzo Giustiniani a Roma («Alias-D», 17 settembre 2023); e ora mi pare opportuno, per tenere la barra di questa serie di articoli, sostare un momento in Sicilia. Nell’isola la palma d’oro per il collezionista, anche a prendere insieme tutti i secoli, spetta indubbiamente ad Antonio Ruffo.
Siamo nella Messina fiorente per commerci di ogni tipo, dove a inizio Seicento avviene una serrata nella gestione delle cariche amministrative che rende possibile l’accumulazione, per pochissime famiglie, di ricchezze immani. Così i Ruffo, dalla Calabria che dava loro feudi e titoli, si trapiantano dall’altra parte dello Stretto, per contrabbandare al meglio seta, grano e generi alimentari. Una denuncia del 1641 lo dice chiaro e tondo: Antonio « tiene casa abierta de contrabandos y un bengantin armado (…) y otros vaxeles y falucas que no se ocupan sino en traer sedas a esa ciudad de las partes de Calabrìa (…) y para las de Pulla, queso, navas, y otras legumbres, trigo y diferentes mercanzias hasta leñame y maderas prohivida… »: insomma un vero arsenale privato, tessuto a doppio filo con altri affari torbidi da triangolare con Malta. I suoi operai navali intenti al rimessaggio delle barche li vediamo al lavoro negli schizzi di Abraham Casembroot, divisi fra i gabinetti di disegni di Berlino, Monaco e le collezioni private.
Per reinvestire lecitamente tutti questi introiti e coronare la sua ascesa, Ruffo si fa costruire un palazzo che completa il ‘teatro marittimo’, un fronte coeso di dimore da cui contemplare arrivi e partenze dei propri bastimenti. Ruffo va ad abitare nel palazzo nel 1646 e già l’anno dopo acquista a Napoli quattro santi di Ribera, fra cui il San Girolamo che è oggi al Wallraf-Richartz di Colonia: un quadro tutto rughe e carne molle, dipinto nello stesso anno, che manifesta un’aperta adesione del collezionista al caravaggismo. Ma imperversavano anche venti di segno contrario, seducendo anche Ruffo: negli anni a venire fioccano gli acquisti di piccoli Poussin bacchici, di giganteschi quadri di Andrea Sacchi con Noè ubriaco (sarà quello della Gemäldegalerie di Berlino?), di Romanelli o di Andrea Camassei, tanto per rimanere entro l’alveo rassicurante del classicismo del tempo di Urbano VIII. Quando compra i fiamminghi, invece, Ruffo preferisce attenersi a nomi consolidati da circa un ventennio: così sbarcano a Messina dipinti di Van Dyck eseguiti negli anni venti, sottratti alle collezioni dei palermitani.
Questo bazzicare il mercato si fa sempre più fine: lo attestano le 182 lettere pubblicate da un discendente di Antonio, Vincenzo Ruffo, sul «Bollettino d’arte» a partire dal 1916. Quando compare questo magma inesauribile di missive scambiate fra artisti e agenti, fra parenti prelati e consoli della nazione messinese, il giovane Roberto Longhi, che scrive il suo bollettino bibliografico su «L’arte», rimane strabiliato. L’aveva capito già lui che il superbo Satiro che visita i pastori di Jacob Jordaens del Musée des Beaux-Arts di Bruxelles era il quadro che aveva comprato Ruffo sulla piazza di Anversa.
Francis Haskell, in Patrons and painters (1966), pensava che Ruffo non si fosse mai mosso da Messina, e che anche in assenza di grandi viaggi, grazie ai quadri che andavano e venivano, ci si potesse formare un occhio allenato e attento. Le cautele riguardavano anche il portafoglio: parla chiaro una lettera di Artemisia Gentileschi, in risposta a una lamentela sul prezzo da pagare per due quadri di due metri e mezzo per due: uno è un Trionfo di Galatea che di recente è finito a Los Angeles, al Lucas Museum of Narrative Art; l’altro, un Bagno di Diana «con altre cinque Ninfe con due cani», recita un inventario. L’artista si giustificava dicendo che su cinquanta modelle che si spogliavano, di buona ne trovava appena una: e così i costi si moltiplicavano. In questi rapporti con gli artisti di stanza a Napoli, conta l’ascendente del fratello Flavio, abate di San Bartolomeo a Sinopoli, con il quale Antonio aveva trascorso gli anni fondamentali della giovinezza.
Ma l’oggetto di una vera e propria predilezione, fin dal 1648, sono i bolognesi: ciò è dovuto forse all’impressione che desta l’arrivo in collezione dell’Erminia e i pastori di Guercino – il quadro è oggi a Minneapolis – nel gennaio del ’49. Parte una caccia sul mercato, intrapresa per conto suo da Pietro Antonio Davia, che lascia trapelare notizie su una Sibilla di Guido Reni «stimata delle più belle che habbi mai fatto», ma il problema è che «chi se ne trova», di opere del pittore, «le tiene molto care».
Nel 1654 era arrivato invece a casa Ruffo l’Aristotele che tocca il busto di Omero di Rembrandt, oggi al Metropolitan. Difficile non accendersi di entusiasmo per quel dialogo in penombra fra il filosofo e il poeta; e gli studi di oggi sono abbastanza concordi nel ritenere che l’invenzione del soggetto spetti all’artista e non al committente. Sei anni dopo Ruffo contatta Guercino: desidera che dipinga lui una mezza figura «per accompagnamento» a quella di Rembrandt, deve trattarsi però di un’opera della «prima maniera gagliarda» del pittore. Così, per informare il bolognese di cosa era stato dipinto ad Amsterdam, un artista messinese fa uno schizzo, e Guercino può dire la sua: «per accompagnare quella del Rembrant da me giudicato rapresenti un Fisonomista ho pensato esser molto approposito farli un Cosmografo come appunto hò fatto». Il dipinto inviato non è ancora stato riscattato dall’ombra, nonostante ci sia, nella Pinacoteca Nazionale di Sassari, un Cosmografo del Guercino, già messo in relazione con la commissione di Ruffo. Si ha un’idea però della composizione, grazie a un disegno che è finito a Princeton, e viene riconosciuto come il disegno preparatorio del quadro perduto sin dal 1944, quando Jakob Rosenberg lo identificò. Ma la storia non finisce qui. Ruffo commissiona a Rembrandt un Alessandro Magno e quando la spedizione arriva a Messina, nella cassa c’è anche un Omero (il dipinto è oggi all’Aja, al Mauritshuis). Il collezionista non è contento: i due quadri sono piccoli, due mezze figure che non si possono accostare al grande Aristotele e in più l’Alessandro è dipinto su quattro pezzi di tela cuciti insieme e risvoltati. Così la cassa viene rispedita ad Amsterdam, Rembrandt si adopera per correggere il tiro e i dipinti tornano a Messina nel 1663.
Sarà stato soddisfatto, a questo punto, l’intrattabile magnate? Non è detto. Lui, intanto, insiste coi suoi agenti per procacciarsi a Bologna dipinti del Guercino giovane. Falliscono vari tentativi: la storia più scottante riguarda un San Pietro liberato dal carcere, forse quello oggi al Prado. È lo stesso Guercino a insistere con una vedova, perché il messinese «sommamente desidera questo quadro», ma a un certo si scopre che lei l’ha venduto, a un «Cavalliere francese» che era lì «per comprar pitture, (e) tra gli altri s’invaghì anche di questo».
Solo molto dopo Ruffo riesce a entrare in possesso di una Madonna con il Bambino e San Giovannino «prima maniera». Siamo nel 1665 e poco dopo quest’acquisto, come ripercorrendo a ritroso la storia della pittura bolognese, il collezionista richiede a Benedetto Gennari un dipinto di Annibale Carracci. Il nipote di Guercino lo avverte: «sarà difficile se non imposibile». Sei mesi dopo il corrispondente dirà di avere fra le mani un Ritratto di Annibale «belissimo et assai ben conservato», deve essere «uno studente o qualche Academico perché tiene nelle mani un libro con dentro l’impresa». L’expertise è fornita da Guercino in persona e il quadro arriverà nel 1666; un inventario precisa che l’iscrizione recita «Nemo contentus».
Nei suoi anni finali Ruffo vorrebbe coronare la sua pinacoteca con «qualche pezzetto di mano del Caravaggio», come chiede in una lettera del 1669 a Mattia Preti, che è attivo sulla piazza di Malta. Erano entrati diversi quadri del Cavalier Calabrese in casa Ruffo, vicini ai filosofi di Agostino Scilla e di Salvator Rosa.
Ma ci vorrebbe un romanzo, una mostra o quantomeno un libro di storia dell’arte per raccontare compiutamente tutte le imprese di Ruffo, tutt’altro che esemplari. Per ora, ci si deve accontentare delle buone ricostruzioni recenti di Maria Concetta Calabrese, di Rosanna Di Gennaro sugli inventari ritrovati, o di singoli affondi di studiosi sulle opere.