Mercoledì 13 gennaio è stato uno di quei giorni in cui il diritto costituzionale si legge nella cronaca. Mattarella opera una moral suasion su Conte, sollecitando soluzioni rapide. Conte la raccoglie, aprendo a Renzi, e chiudendo ai “responsabili”. Renzi in conferenza stampa respinge la sollecitazione di Mattarella e attacca personalmente Conte. Che a sua volta in serata in Consiglio dei ministri contesta a Italia Viva gravi responsabilità, e accetta le dimissioni delle sue ministre. Annuncia che informerà Mattarella, ma non dice di voler rassegnare le proprie dimissioni. Qui si certifica la morte della coalizione, non del governo, e la crisi è congelata.

Mentre il consiglio dei ministri è ancora in corso, vengono da PD, M5S, LEU dichiarazioni di pieno appoggio a Conte. La maggioranza (residua) fa quadrato, e lascia il cerino acceso in mano a Renzi. Invece, da un’assemblea dei parlamentari di Italia Viva con Renzi non esce nemmeno una parola. Forse, un segnale significativo di dissensi verso il leader.

Nella giornata del 14 gennaio gli ex alleati dichiarano una rottura definitiva con Renzi, alzando un cordone sanitario che sembra chiudere la strada a un Conte ter con la stessa maggioranza. Mentre lo strappo di Renzi ha rimesso in gioco l’ipotesi dei responsabili, rectius oggi “costruttori”. Conte si reca al Quirinale, il cui comunicato ci informa che il premier “ha rappresentato la volontà di promuovere in Parlamento l’indispensabile chiarimento politico mediante comunicazioni da rendere dinanzi alle Camere. Il Presidente della Repubblica ha preso atto degli intendimenti così manifestati dal Presidente del Consiglio dei Ministri”.

Dunque è stato Conte a decidere di andare in Parlamento per cercare i voti, e Mattarella ha preso atto. Niente da eccepire. Il potere della crisi (di governo) non è nelle mani di Mattarella, ma in quelle di Conte. Se non si dimette volontariamente, non Mattarella, ma solo un voto di sfiducia o una questione di fiducia respinta può obbligarlo alle dimissioni. Né Mattarella può imporre o viceversa impedire a un premier non dimissionario di andare alle camere, per un voto sulla fiducia. Mattarella potrebbe porre fine alla vita del governo solo come effetto collaterale di uno scioglimento anticipato delle camere. Se non scioglie, deve accettare il governo che c’è, con la maggioranza che ha.

Cosa può dirci la verifica parlamentare? Si contano i voti. Leggiamo che Mattarella chiede la formazione di un gruppo parlamentare ad hoc, non volendo maggioranze raccogliticce. È moral suasion. La domanda è: se i voti comunque bastassero per la fiducia, Mattarella davvero si assumerebbe la responsabilità di uno scioglimento anticipato, nella situazione drammatica che il paese attraversa, perché ritiene precaria la salute politica del governo?

Di più. Per la fiducia è sufficiente la maggioranza relativa, non essendo richiesto il voto favorevole della metà più uno dei componenti. Il punto potrebbe essere rilevante in Senato, dove un tempo l’astensione valeva voto contrario. Nel 2017 il regolamento è stato uniformato a quello della Camera, e l’art. 107 vigente prevede che per la deliberazione siano contati i soli voti favorevoli e contrari, non gli astenuti. Oggi, l’astensione dei “costruttori” potrebbe bastare per spianare la via della fiducia.

Il 4 agosto 1976 Andreotti alla Camera dichiara che il suo III governo si presenta “per ottenere la fiducia o almeno la non sfiducia”. L’11 agosto in replica nega che la “non sfiducia” porti a “modelli non controllabili di parlamentarismo” perché chiedendo il voto con autonome decisioni “maturate al di fuori di ogni pattuizione segreta … ogni forza politica conserva la sua identità e fisionomia: ne è prova evidente l’avvenuta enunciazione di modi diversi di vedere le prospettive del futuro e di lavorare conseguentemente per esso”. Nihil sub sole novum. Per la votazione, si legge nel resoconto: “votanti 302; astenuti 303; maggioranza 152; hanno risposto sì 258; hanno risposto no 44. La Camera approva”.

Molti si interrogano sul perché Renzi abbia cercato lo strappo, e su eventuali trame oscure che ne siano la spiegazione. Ma è anche possibile che, come già nel 2016 con il referendum, Renzi sia solo un giocatore arrogante, incapace di vedere il momento giusto per deporre le carte. Mancandolo, mette a rischio il paese, e sé stesso.