C’è una cosa che chiunque abbia visto il film Gravity ha ben chiara in mente: il problema dei rifiuti spaziali è molto serio. E non solo per la salute degli astronauti sulla Stazione spaziale internazionale, o per la tecnologia dei nostri satelliti, ma soprattutto per l’economia mondiale, che dipende in larghissima misura dalla tecnologia spaziale. Basti pensare alle comunicazioni, a internet, alle previsioni del tempo o alla geolocalizzazione: nel XXI secolo, se dovessero venire a mancare questi elementi perché i satelliti che li garantiscono vengono danneggiati da un rifiuto spaziale fuori controllo, sarebbe un bel problema per la maggior parte di noi.

Secondo le stime più affidabili, ci sono circa ottocentomila oggetti delle dimensioni di più di un centimetro che vagano in orbita attorno alla terra, e per quelli fra un millimetro e un centimetro, arriviamo alle centinaia di milioni, per un totale di circa 7500 tonnellate di roba. Il 98% delle quali è costituito da 1500 oggetti che gravitano in un’orbita terrestre bassa (low Earth orbit), sotto i 2000 km. E occhio: da qui al 2025 si prevede il lancio di altre centinaia di satelliti.

Come per le montagne di rifiuti nei mari o nelle nostre campagne, il problema lo abbiamo creato noi, e in pochissimi anni: esattamente, dal 1957, anno che apre l’era spaziale con il lancio del satellite russo Sputnik. Da allora, sono stati lanciati nello spazio più di 5200 razzi che hanno messo in orbita più di 7500 satelliti, di cui 1200 ancora funzionanti. 4300 vagano ancora nello spazio. E questi sono il minore dei problemi, perché sono oggetti grandi e ben monitorati. Il problema sono i pezzettini più piccoli, che viaggiano a circa 30mila km all’ora, e che sono frammenti di satelliti, le parti degli stadi superiori dei razzi con cui sono stati lanciati questi satelliti, frammenti di vernici che si sono staccate, e piccoli oggetti come guanti o macchine fotografiche persi da astronauti o i rifiuti della prima stazione spaziale, la Mir russa (a sua volta diventata un rifiuto spaziale, che venne fatto precipitare nell’Oceano Pacifico nel 2001). La Stazione spaziale internazionale di oggi ha un protocollo per il controllo dei rifiuti più sofisticato – vengono rinchiusi in un modulo che poi viene fatto distruggere nell’atmosfera. Già, perché nel migliore dei casi la strategia per disfarsi dei rifiuti è quella di usare l’atmosfera terrestre per disintegrarli, o gli oceani per quelli più grandi. Per la verità, la vaporizzazione dei rifiuti produce dei resti gassosi in atmosfera la cui composizione non è ancora stata ben studiata e il cui impatto ambientale (stavolta sulla terra) deve ancora essere valutato del tutto.

ANCHE SE, PER FORTUNA, UNA PARTE di questi rifiuti va disintegrandosi rientrando nell’atmosfera terrestre, il problema continua a peggiorare: ogni collisione crea una cascata di rifiuti più piccoli (il nome tecnico per questo effetto è «sindrome di Kessler»). È già accaduto in gigantesche proporzioni: nel 2009 un satellite russo di comunicazione inattivo, Kosmos 2251, si scontrò contro un satellite di comunicazione operativo statunitense, l’Iridium 33, generando un’enorme nuvola di rifiuti (molti dei quali sono ancora in orbita). Poi ci sono anche le dimostrazioni di forza: nel 2007 la Cina decise di risolvere il problema di un suo satellite inattivo FY-1C sparandogli addosso un missile, che generò una montagna di rifiuti, e lo stesso fecero gli Stati Uniti poco dopo: entrambi con la scusa del pericolo che avrebbe posto un loro satellite, ma con il chiaro scopo di dimostrare di essere capaci di distruggersi a vicenda satelliti chiave dalla terra. Intanto, per marzo è previsto il rientro della stazione spaziale cinese Tiangong-1, che era stata lanciata nel 2011 ma che è ormai inutilizzata. Russia e Stati Uniti, per ovvie ragioni storiche, guidano la classifica di chi ha prodotto più immondizia spaziale, seguiti però dalla Cina che, con molti meno satelliti, ha contribuito alla creazione di rifiuti spaziali in maniera significativa grazie ai suoi tiri al bersaglio spaziali.

FORMALMENTE OGGI le principali agenzie spaziali del mondo sono impegnate a controllare la produzione di spazzatura; nessuno ormai sottovaluta il problema, e gli standard per limitare il numero di rifiuti sono molto migliorati. Si chiamano «space debris mitigation standards» e la stessa Assemblea generale dell’Onu, nell’ambito del Comitato per l’uso pacifico dello spazio esterno, ha approvato nel 2007 di stilare delle linee guida per minimizzare la produzione di immondizia spaziale, per rendere più solidi i satelliti (perché sia più difficile che si spezzino) e per ottimizzare l’impatto spazio-ambientale delle fasi post-operatività dei satelliti. Quest’anno dovrebbe esserne approvata una versione definitiva. La stessa Agenzia spaziale europea ha un ufficio «Spazio pulito» (Clean Space) e la Nasa assieme al ministero della difesa statunitense monitora regolarmente più di 500mila detriti spaziali.

Oltre alla strategia della mitigazione, nuove tecnologie vengono studiate per cercare di risolvere, almeno per i casi più gravi, il problema dei rifiuti accumulati. Un’idea potrebbe essere quella di concentrare il flusso solare per distruggere i detriti cosiddetti di categoria 2 (fra 1 e 10 cm) vaporizzandoli. Per farlo, bisognerebbe portare degli speciali specchi in orbita. Anche gruppi di ricerca cinesi hanno recentemente proposto un approccio simile (per i rifiuti più piccoli): colpirli con dei laser montati su altri satelliti. L’idea è quella di farne abbassare l’orbita per farli rientrare in atmosfera.

A parte l’approccio della polverizzazione, l’approccio più comune al problema è l’idea di agganciare il rifiuto, una questione tutt’altro che banale nello spazio.

L’AGENZIA SPAZIALE EUROPEA ESA sta lavorando su un progetto chiamato e.Deorbit, dove deorbit è il verbo che indica la discesa di un oggetto dalla sua orbita verso terra. Questo speciale satellite, ancora in studio, catturerebbe o attraverso una gigantesca rete spaziale, o con un arpione, o con un braccio robotico, i satelliti defunti alla deriva per spingerli verso il basso e causarne un rientro sulla terra e una distruzione controllata. Gli inglesi lavorano su un progetto simile, chiamato RemoveDebris: più o meno la stessa idea, catturare i rifiuti più grandi e trascinarli verso il basso. Il primo prototipo verrà montato sulla stazione spaziale internazionale a febbraio.

L’AGENZIA SPAZIALE GIAPPONESE JAXA invece propone di usare una specie di filo elettrodinamico di 700 metri fatto di finissimi cavi d’acciaio e d’alluminio per afferrare un rifiuto e trascinarlo in basso, ma l’anno scorso una missione sperimentale per provarlo è fallita. Un’impresa americana propone missioni a forma di gigantesco foglio di carta stagnola grande un metro e più fino di un capello chiamato Brane Craft, il cui scopo sarebbe impacchettare il rifiuto – una tecnologia che la Nasa ritiene promettente, anche se per il suo minimo spessore prima sarà necessario capire come proteggerlo dalle perforazioni di altri rifiuti spaziali piccolissimi che potrebbero colpirlo.

LA STAZIONE SPAZIALE INTERNAZIONALE, dotata di pannelli protettivi che la proteggono da detriti più piccoli, è regolarmente costretta a manovre per evitare i rifiuti spaziali (quelli più grandi di 3 millimetri vengono monitorati da terra). Nonostante tutto, nel 2012 venne colpita da un frammento che scheggiò uno dei vetri di una finestra della Cupola, come monito sul pericolo a cui l’esplorazione spaziale sottopone gli astronauti. Sulla parte esterna del modulo Columbus è stato appena montato un nuovo strumento, lo Space Debris Sensor, che monitorerà per tre anni tutti i frammenti di dimensioni comprese fra 0,05 mm fino a mezzo millimetro, pericolosi perché possono mettere in pericolo il volo spaziale umano e le missioni robotiche.

Affrontare un problema che la società tecnologica stessa ha prodotto e che si trasforma in pericolo per l’umanità è un’opportunità per la ricerca scientifica, l’innovazione tecnologica e la collaborazione internazionale. Cioè per dare il meglio – o il peggio – di cui siamo capaci.