Quando nel 1902 O. Henry arriva a New York ha quarant’anni e «l’aria di conoscere emisferi e mondi». Aveva iniziato a lavorare giovanissimo alla farmacia dello zio per poi essere assunto come cassiere in banca; era stato illustratore, attore, musicista, editore di un settimanale umoristico, autore di articoli e racconti.

Tutto s’incrina con l’accusa – pare infondata – di appropriazione indebita di denaro nella banca in cui lavorava. Uscito dietro cauzione scappa in Honduras, tornando solo per assistere la moglie morente. Affronta il processo senza difendersi e passa tre anni in prigione, pur non entrando mai in cella. Sfolgorante e mondana, la New York che si trova di fronte diventa protagonista dei suoi racconti. Ne scrive 381, principalmente sul «New York World Sunday Magazine».

Nove di questi, tutti inediti in Italia, sono raggruppati in Come diventare newyorkesi (da Mattioli 1885, a cura di Silvia Lumaca, pp. 105, € 10,00): storie favolistiche in cui troviamo impiegati, ristoratori, commessi, avvocati, cassiere, stenografe, broker ritratti nella loro normalità, figure goffe in una New York «sfarzosa, opulenta, provocante, mutevole, desiderabile» – scrive in «Un tuffo nell’afasia» –, ma anche «glaciale, enigmatica, ironica, illeggibile, innaturale, spietata», secondo Raggles, il poeta senza un soldo del racconto che dà il titolo al volume.

È già la metropoli dei palazzi altissimi che «tagliano fuori il cielo», dove «migliaia di schiavi stanno chinati tutto il giorno sulle loro scrivanie», si legge in «Un messaggero di Baghdad», la città egotista, le cui chiavi – che non sono le chiavi dell’Arbitrio, bensì le chiavi della Convenzione – appartengono solo «a chi è capace di portarle».

In questi racconti c’è tutta la cifra di O. Henry: i finali briosi e inaspettati, l’assenza di fili sospesi, lo stile macchiettistico ornato da sfilze di aggettivi – «Occhi luminosi, sinistri, curiosi, ammirati, provocanti, seducenti» –, strumenti efficaci per esprimere un incondizionato amore per la vita.

In «La sfilata dell’abito sprecato» un architetto, che si regala una serata lussuosa ogni sessantanove giorni recitando la parte del frivolo fannullone, incontra una ragazza (lei ricca sul serio ma finge il contrario) che gli confida «Questo modo di vivere di cui parla suona così futile»; in «Mentre l’auto aspetta», quasi simmetricamente, la cassiera di un locale, che si fa passare per un’aristocratica stanca dei gioielli, dei viaggi, dei ricevimenti, dei facoltosi, «piccole marionette tutte uguali», conosce un uomo (lui ricco sul serio ma finge il contrario) e gli confida che vorrebbe amare «uno che lavora, non un parassita».

Per Pavese, tra i primi ad apprezzarlo in Italia, O. Henry è «estroso», «bizzarro e piacevole»; per Manganelli, che curò nel 1970 una robusta raccolta per Garzanti (ripresa poi da Adelphi), Memorie di un cane giallo, «un entertainer, un corruttore» con un «gusto innocente della burla, della beffa che egli trama a nostra confusione».