Il cucciolo di orso esce dalla sua gabbia costruita con solidi e ritorti tronchi, viene strattonato e condotto in circolo a «danzare» insieme a donne e uomini che indossano costumi tradizionali e preparano per giorni il dono agli dèi, il sacrificio dell’animale, mimando la caccia fino all’uccisione vera per soffocamento.

È IL FILMATO da antropologo di Fosco Maraini che, nelle sue tante vite racchiuse in una sola, questa volta troviamo sulle tracce dello Iyomande, la cerimonia massima degli Ainu (il popolo della montagna che condusse questo inquieto viaggiatore della mente in Giappone, alla fine degli anni ’30, quando si trasferì nell’isola di Hokkaido per studiarne tradizioni, cultura e religione).
Al valore storico del documento (datato 1954, il primo e più autentico, il secondo 1971 quando la civiltà degli Ainu cominciava ad avviarsi verso il tramonto) si aggiunge quello artistico, in cui Maraini, in veste di fotografo, separa alcuni fotogrammi rendendoli protagonisti di scatti meravigliosi, scandendo il rituale con il ritmo astratto-geometrico degli abiti dell’intera comunità.
Nell’Endocosmo Maraini – questo il titolo della mostra presso l’Istituto giapponese di cultura a Roma (visitabile fino al 20 ottobre, a cura delle nipoti Nour Melehi e Mujah Maraini Melehi) – scorre la storia intima di una famiglia avventurosa e pionieristica che lascia l’Italia in nave da Brindisi il 31 ottobre del 1938 per trasferirsi nel mondo alieno dell’estremo oriente, proprio mentre l’Europa andava trasformandosi, con le leggi razziali, in un enorme ghetto.
La rassegna è disseminata di impronte sentimentali e storiche, di graffiti lasciati dalle parole dei tanti libri dedicati al Giappone dell’autore. Sono trame domestiche, momenti di una quotidianità vissuta a stretto contatto con le dure stagioni del luogo (la candida neve eterna di Sapporo, ma anche le primavere fiorite), le macerie della guerra, la prigionia per la fede antifascista e il rifiuto di apporre una firma per legittimare la Repubblica di Salò, l’infanzia costellata di sguardi incerti tra smarrimento e fiducia.

SONO PROPRIO questi ultimi – gli sguardi – delle bambine Dacia, Toni e Juki con la loro madre Topazia Alliata – a calamitare il centro delle foto paterne. A partire da quello della primogenita, poi celebre scrittrice, che si erge su un paesaggio postapocalittico di rovine fumanti (uno scenario quasi fantasy, che somiglia molto a quello di Cormac McCarthy nel romanzo La strada), con gli occhi spalancati e vigili sulla realtà divenuta ormai una città accartocciata. Non così i sogni che i Maraini, piccoli e grandi, continuarono a coltivare nel giardino segreto dei loro pensieri.

«Un’esistenza di selve interiori», chiamava il suo Giappone Fosco Maraini. Ed è quello che si percepisce vagando per la mostra, senza seguire il filo cronologico, le tappe di quella «stanza-mondo», ma con una attitudine da flâneur e, consigliata anche ai visitatori, una propensione alla metamorfosi (in curiosi etnografi). Figura poliedrica, scrittore, scienziato e fotografo, cittadino di Citluvit – una geografia immaginaria in cui aveva trasposto la condizione umana, collocandola all’ombra della luna, fra terra e cielo -, Maraini è stato anche un «artigiano» di endocosmi, arredando quella mappa emozionale in modo unico e originale. Come testimonia il bel documentario Haiku On a Plum Tree di Mujah Maraini Melehi, di cui vengono proposti in video alcuni momenti e che, a settembre, verrà proiettato per intero.