C’è una poesia, oggi in quota maggioritaria, che letteralmente si separa dal corpo vivo dell’esperienza ovvero dalla realtà tridimensionale per avviarsi in un inframondo di esclusivi, e anzi revulsivi, significanti: si tratta della poesia della perfezione, per etimologia, e come tale portatrice di una paradossale cecità. Viceversa si inoltra nella parzialità, per proverbio imperfetta, del mondo vivo la parola che ne deduce ustione, ferita o fisico impedimento: questo è il minoritario della poesia naturaliter materialista di cui Maria Teresa Carbone fornisce un nitido esempio con Calendiario (Nino Aragno editore, pp. 68, euro 15), volume che accoglie un lavoro oramai ventennale. Si compone di due parti che stanno fra di loro opposte e complementari, nello sguardo e nel segno.

NELLA PRIMA, Calendiario 2004-2020, si accampano frammenti, notazioni, veri e propri epigrammi dove il verso è frontale, nudo di orpelli e di nomi propri in cui batte sottotraccia, ma tenuto in sordina, il pulsare tipico dell’endecasillabo: si tratta di un palinsesto della vita quotidiana e su di esso si stratificano minimi e vividi effetti della ricaduta percettiva, scene o frazioni di scene domestiche, in uno stile che potrebbe dirsi pointilliste per la propria esattezza, come in questo micidiale, stupendo, trapasso che connette spazio e tempo, biologia personale e vita in comune: «quando sfioravo il polso di mia madre/ il sangue saliva scuro in superficie/ col tempo la pelle si fa più sottile// un tempo dicevamo bello e brutto/ ogni cosa aveva il suo contrario/ adesso siamo sullo stesso lato, vecchi».

Per lo più sono immagini prese dall’interno, stanze e passaggi che favoriscono le azioni della vita ordinaria, soggiorni, camere da letto, balconi, ascensori duramente claustrofobici cui fa da controcanto (o da eco, scrive Laura Pugno nella limpida quarta di copertina) una sequenza di foto dell’autrice che non illustrano ma fungono da specchio ustorio per quegli interni medesimi: i colori vi si stampano tenui, corpi e oggetti si presentano destrutturati, frammentati e ancora una volta si offrono alla maniera di parzialità che invochino una totalità (dunque una compiutezza, una perfezione) impossibile.

Peraltro, e sia detto per inciso, Carbone ha sempre guardato come a un primario riferimento la Neoavanguardia (specialmente il «fare» poetico di Nanni Balestrini ma anche, in questo caso, certe partiture «cosali» di Antonio Porta) e però va aggiunto subito che nulla è più lontano dai suoi versi della monotonia ludica e metalinguistica di chi candidamente se ne proclama erede.

NELLA SECONDA PARTE del volume, Cinque quarti. Esercizi di cosmogonia quotidiana, è in gioco la dinamica stessa del percepire, la cui grammatica viene scandita per successive categorie di corpo fisico, spazio, tempo, parola (e infine l’alfa/omega che tutti quanti li connette). Nella forma di una suite, vi si alternano liberamente prima, seconda e terza persona mentre mondo esterno e risonanza interiore si richiamano in blocchi anche grafici di sestine, secondo una metrica che non si esibisce ma, di nuovo, è la più classica nel controcanto sistematico: qui, proprio lo scambio della voce favorisce una progressiva spoliazione della esperienza, la liberazione dalle scorie pulviscolari, la sua riduzione ai fattori essenziali e dunque liberati da ogni contingenza, catturati fra interno ed esterno, nella loro nuda verità materiale: «segno precario su supporto incerto/ finge pretende fragile/ eternità senza sapere/ che sarà di noi/ testardi copisti di noi/ medesimi mutanti».

Mutanti gli uomini, scrive Carbone, e perciò resi falsi e posticci, persuasi del fatto che il mondo non si può mutare e che anzi non esiste se non nell’eterno ritorno di sé quale mero significante, traccia bidimensionale. Ma, scrisse un grande maestro, che se è finita la strada è comunque iniziato il cammino: vecchia la storia ignota la via è giusto il verso che suggella Calendiario di Maria Teresa Carbone.