I luoghi comuni, si sa, sono duri a morire. Su I masnadieri (1847) di Giuseppe Verdi, in scena fino al 7 luglio alla Scala, pesa da decenni il giudizio perentorio di Massimo Mila, che la definì «una delle sei opere brutte di Verdi», il che spiega solo in parte l’ostracismo riservato a questo titolo dal teatro meneghino. Se è vero infatti che l’unico allestimento novecentesco risale al 1978, con la direzione di un giovanissimo Riccardo Chailly, occorre anche ricordare che nell’Ottocento, con le sole esecuzioni del 1853 e del 1862, non andò meglio. Quest’opera patisce da sempre la sua diversità e la sua refrattarietà a essere collocata nel casellario della ricezione tradizionale del canone verdiano, sprovvista com’è di una trama sentimentale e/o di una trama eroica dotate del dinamismo scenico al quale Verdi ha abituato il suo pubblico e sul quale ha costruito la sua poetica.

IN REALTA’ queste mancanze, certamente ascrivibili in parte al dramma scomposto cui è ispirata l’opera, Die Räuber, primo cimento di un Friedrich Schiller appena diciannovenne, e in parte al pomposo e statico adattamento di Andrea Maffei, personaggio di spicco della vita culturale italiana sul quale Verdi non volle più di tanto a imporsi, sono il negativo di un tentativo interessantissimo di sperimentare vie nuove rispetto a quelle percorse nei decenni precedenti, complice anche la prima committenza straniera: con I masnadieri Verdi debuttò a Londra, come poco dopo, con Jérusalem, debutterà a Parigi.

SUL PIANO del contenuto, l’assenza di uno sviluppo chiaro e di uno scioglimento univoco, il solipsismo malinconico e rimuginativo e il cupio dissolvi che attanagliano tutti i personaggi preludono al pur schilleriano Don Carlos; le pulsioni patricide e fratricide di Francesco, il cui nichilismo malefico anticipa quello di Jago, sono imparentate con quelle al centro di un’opera che Verdi desiderò con tutto se stesso realizzare senza riuscirci, lo shakespeariano Re Lear; sul piano della forma, la ricerca armonica (in particolare nel preludio) raggiunge vette inedite di raffinatezza, la forma dell’aria incomincia a dilatarsi fino a perdere la sua riconoscibilità (si pensi alla romanza di Amalia), le voci maschili diventano terreno di uno scavo e di una ricerca inauditi (si pensi ai duetti simmetrici baritono-basso e tenore-basso del Quarto Atto).

Michele Mariotti, reduce dall’inaugurazione della stagione dell’Opéra di Parigi con Les Huguenots di Meyerbeer, mostra di avere maturato una sua cifra nella lettura del repertorio romantico, dirigendo l’orchestra della Scala con una sicurezza, una spavalderia di ritmo, un’attenzione alle voci e un cesello dei dettagli da rendere la sua interpretazione dei Masnadieri magistrale. La regia di David McVicar, avvistato l’ultima volta alla Scala nel 2014 con Les Troyens di Berlioz, non cerca di razionalizzare il testo di Maffei né la drammaturgia di Schiller, anzi usa la funzione autoriale per costruire attorno a una vicenda farraginosa e sconclusionata la cornice assai più chiara della leggenda dell’artista: così le scene di Charles Edwards e i costumi di Brigitte Reiffenstuel ci trasportano in un’accademia militare tedesca di fine Settecento simile a quella in cui Schiller compose in gran segreto Die Räuber; così un mimo porta in scena lo stesso Schiller intento a ideare, scrivere e incarnare il dramma e i suoi sviluppi. Eccellente il cast dei cantanti: gli assidui della Scala Fabio Sartori e Michele Pertusi, Lisette Oropesa al debutto milanese e Massimo Cavalletti fanno sfoggio di voci sontuose, timbrate, voluminose e di fraseggi sempre convincenti.