Il film italiano, l’unico in gara nonostante ormai non si parli (e con la tipica presunzione della «tendenza» vincente) d’altro sarà Dustur di Marco Santarelli, regista bravo che da diversi anni solca gli schermi dei festival internazionali. Stiamo parlando di Cinéma du Reel, lo storico appuntamento parigino col documentario, riferimento importante per i filmmaker del mondo. Da qualche anno a dirigerlo c’è una curatrice italiana, Maria Bonsanti, già alla guida del fiorentino Festival dei Popoli, che ha raccolto questa sfida non facile – l’istituzione di prestigio, una «committenza» più che esigente, la scommessa col pubblico che affolla le sale del Centre Pompidou sede del festival dimostrando una sicurezza di ideazione.

 

 

 

La vera scoperta (italiana) però, almeno per il pubblico in Francia, e forse lo sarebbe anche per quello in Italia vista la sua condizione (per scelta) appartata, è il focus dedicato a Franco Piavoli, per molti giovani un riferimento prezioso – pensiamo a uno degli esordi più interessanti di quest’anno, Triokala di Leandro Picarella che deve molto comunque anche all’ispirazione di Michelangelo Frammartino. Del regista del Pianeta azzurro (’82), divenuto nel tempo quasi un film leggendario, si vedranno i primi lavori come Ambulatorio (’54), Le Stagioni (’61), Domenica sera (’62), Emigranti (’63), Evasi (’64) ma anche immagini del film a cui sta lavorando durante l’incontro con il pubblico.

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Apertura, il 18 marzo (fino al 27) con il nuovo film di Avi Mograbi (ne ha parlato su queste pagine dalla Berlinale Eugenio Renzi) Between Fence, Tra i confini, racconto «paradossale» della condizione dei richiedenti asilo in Israele. Mograbi, scartando un po ma non troppo dai suoi film che della realtà colgono il conflitto nella sua messinscena, lavora con un gruppo di migranti rinchiusi in un centro d’accoglienza in Israele, e scambiando i ruoli tra loro e alcuni attori israeliani fa esplodere l’assurdità di questa loro condizione sospesa, riflesso di un Paese razzista e ripiegato sulla propria Storia.

 

 

Quattro sezioni competitive, internazionale, francese (qui tra gli altri il nuovo film di Mathieu Chatellier, La mécanique des corps, e Faire la parole di Eugène Green), cortometraggi e opere prime, il Festival punta alla qualità e deve molta della sua forza all’ideazione di itinerari «paralleli» che permettono anche a nuovi pubblici di scoprire classici, cineasti del passato e del presente, o di risistematizzare una tendenza o un’opera.

 

 

 

 

Ne è un esempio «Florence Jaugey & Frank Pineda : a l’oeuvre», curata da Nicole Brenez, che esplora il cinema di due registi, Jaugey e Pineda, un racconto di vite fragili e opprese in un paese a alta conflittualità come il Nicaragua, e insieme utopie e sconfitte di possibili rivoluzioni. Nato a Managua nel ’56, Pineda partecipa alla fondazione dell’Incine, l’istituto di cinema creato dal governo sandinista lavorando a almeno una cinquantina di film, tra cui molti «Noticieros» , come venivano chiamati i film che documentavano i cantieri sociali della rivoluzione. Florence Jaugey, francese, è invece attrice di teatro, incontra Pineda a Managua e i due insieme fondano la loro casa di produzione con cui realizzano i loro documentari.

 

 

E ancora, un programma dedicato agli archivi nazionali dell’Albania che dietro alle immagini di propaganda rivelano le strategie degli artisti per esercitare la propria libertà, e un omaggio/personale a Akraam Zatari architetto e artista multimediale  che con il suo lavoro destruttura stereotipi e immaginari del mondo arabo a partire dal Libano, del quale cerca una rappresentazione sulla linea tra la storia ufficiale e quella mai narrata.