L’estetica delle rovine ha subito molteplici metamorfosi. All’inizio dell’Ottocento, però, è investita da una trasformazione profonda, che d’ora in poi influenzerà la concezione delle rovine nell’epoca moderna. La visionarietà dovette far posto alla scienza. Le nuove rovine create dagli scavi archeologici divengono soggetto di campagne fotografiche a partire dalla seconda metà dell’Ottocento. Fotografi professionisti ritraggono l’Acropoli di Atene per rispondere alla crescente domanda di immagini convenzionali dell’antichità classica. Delle numerose rovine greche, solo alcune si trasformarono in soggetto di fotografie e vennero riprodotte secondo un canone stabilito che determinava la scelta e l’inquadratura, l’angolo, la scala cromatica e così via.

I viaggiatori, appartenenti alle classi emergenti, alimentavano un tardo e borghesizzato Grand Tour, di cui conservavano il ricordo, riportando a casa l’immagine di una rovina classica, o piuttosto, di una rovina ricreata e allestita dagli archeologi come oggetto da osservare e di cui impadronirsi grazie alla macchina fotografica. Negli anni ’30 del Novecento, accanto all’interesse per la rovina industriale e gli edifici comuni delle città, in alcuni contesti specifici, soprattutto quello tedesco, si verificò la rinascita di un interesse estetizzante per la Grecia antica e i suoi abitatori. La perfezione fisica dei Greci, idealizzata secondo i canoni estetici del fondatore della storia dell’arte antica Johann Winckelmann, divenne la metafora dell’ esemplarità razziale della Germania hitleriana, come nelle celebri immagini di Leni Riefensthal. Oppure, nelle foto di Herbert List, giovani corpi maschili vengono ritratti con sguardo omoerotico, come se fossero sculture antiche.

Nella seconda metà del Novecento, così come l’arte anche la fotografia perde interesse per l’antico. La diffusione della fotografia a livello popolare dà inizio a un fenomeno che non ha limite nel processo di estraniamento tra oggetto riprodotto e osservatore. I resti archeologici, oggetto di un consumo quotidiano e incessante, sono ridotti a icona trivializzata di un passato incompreso. In Camera chiara, Barthes ha scritto che «le società del passato hanno fatto in modo che la memoria, la sostituta della vita, fosse eterna e che almeno la cosa che parlava di morte fosse essa stessa immortale: questo fu il monumento. Ma facendo della fotografia in qualche maniera naturale testimone di ’ciò che è stato’, la società moderna ha rinunciato al monumento».

Oggi si potrebbe dire che il visitatore medio di un museo o di un monumento archeologico ha rinunciato perfino a guardare: la macchina fotografica o la cinepresa si muovono distaccati dall’occhio e inquadrano gli oggetti in una loro dimensione astratta, acontestuale, rendendoli feticci di un passato ignorato e indecifrabile. Spesso, le rovine o le sculture non sono altro che un pretesto per una foto ricordo di cui, a distanza di anni, probabilmente l’oggetto inanimato sembrerà come un estraneo entrato per caso nell’inquadratura, dato che si sarà persa la memoria di ciò che era.

Contemporaneamente, però, il paesaggio con rovine è tornato al centro dell’opera di alcuni fotografi. Tuttavia l’uomo è scomparso, perché da un lato ciò che prevale è il paesaggio, dall’altro sono venute meno le condizioni culturali che legavano l’uomo all’antichità. È scomparso fisicamente, ma nelle foto restano tracce del suo passaggio. Su questo filone della fotografia avrei potuto occuparmi di Gabriele Basilico, oppure di Mimmo Jodice, ma la mia preferenza è andata al fotografo di origine ceca Josef Koudelka per ragioni del tutto personali.

Laureatosi in ingegneria a Praga, Koudelka cominciò da giovane a dedicarsi amatorialmente alla fotografia. L’anno cruciale, nella sua biografia, è stato il 1968, quando immortalò tutto ciò che avvenne durante l’occupazione sovietica di Praga. Le foto uscirono clandestinamente dal paese e vennero distribuite dalla celebre agenzia Magnum, valendo a Koudelka la Robert Capa gold medal (1969). Nel 1970 lasciò la Cecoslovacchia, visse in Inghilterra fino al 1979, poi si trasferì a Parigi (1980). Membro della Magnum dal ’71, è diventato celebre con affreschi fotografici (Gitans: La fin du voyage, 1978; Exils, 1988; Animaux, 1990). A partire dagli anni Ottanta, abbandonata la Leica, si è servito di una macchina per fotografie panoramiche, dedicandosi alle riprese di paesaggi svuotati di ogni presenza umana (…). In Vestiges, ha preso immagini dai siti archeologici principali greci e romani di diciannove paesi, con lo scopo di documentare le fondazioni della nostra civiltà e che mostrano l’importanza del paesaggio nell’opera di Koudelka.

Partiamo da una delle foto che amo di più: l’enorme colonna dell’Olympieion di Atene, un tempio dedicato a Zeus, iniziato alla fine del VI secolo a.C., il cui completamento avvenne quasi 650 anni dopo sotto l’imperatore Adriano. La colonna è colossale, imponente, assomiglia a un gigante caduto di cui è visibile la fierezza ma allo stesso tempo la fragilità. La colonna contiene in sé l’ambiguità del passato: la potenza della sua originaria verticalità, di quando sorreggeva il tempio e la fragilità dei suoi rocchi smembrati, frammenti che testimoniano una perduta totalità di cui, però, garantiscono anche la perpetuazione della memoria.

Non è molto diversa da un’altra poderosa colonna, questa volta artificiale, quella realizzata dai coniugi Poirier nel 1998 nel Centro per l’arte contemporanea Pecci di Prato i cui rocchi, precipitati e allineati lungo la linea diagonale dell’ipotetico crollo naturale, lasciano immaginare la grandiosità dell’edificio cui apparteneva. L’insieme è in acciaio sfavillante, composto con grandissima cura, sì che il titolo dell’opera, tratto da Orazio, Exegi Monumentum Aere Perennius, è ambiguo.

A una prima lettura, è ironico (il crollo della colonna mostra a sufficienza quanto eterno fosse quel monumento). Ma, dopo tutto, il monumento è intatto, e per molto tempo. È solido come l’acciaio di cui è fatto e sopravviverà ai suoi autori. Rappresenta una rovina di forma antica, una rovina come noi non ne produciamo più, un’immagine del tempo che abbiamo perduto e alla ricerca del quale l’arte non rinuncia.

Koudelka si avvicina con l’obbiettivo alla colonna, i dettagli delle scanalature sono davanti a noi, possiamo ancora leggere le venature del marmo, ma a poco a poco l’occhio si allontana sulla fuga dei rocchi allineati e oltre la natura, anch’essa esemplificata con una forma nobile, tendente verso l’alto, il cipresso, l’occhio è costretto a chiudere la sua traiettoria su un’antenna parabolica in cima a una banale architettura di cemento. Il paesaggio di rovine diventa perciò paesaggio rovinato: gli uomini non ci sono più tra le rovine, come in questa fotografia del 1908, non fanno più parte della loro storia, è avvenuta una cesura e il futuro rivela già la sua rozzezza di forme. (…)

Anche la Roma antica, all’inizio del nuovo secolo, è oggetto di perfezione formale: il Foro Romano, i Fori imperiali. Qui non c’è traccia umana: le persone, spiega il fotografo, lo avrebbero distolto dalla sua adesione intima alla città. Muovendosi, avrebbero creato problemi nella messa a fuoco delle immagini. La Roma che scorre sotto i nostri occhi sembra apparentemente quella della Grande Bellezza di Sorrentino, una Roma inesistente, atemporale, piuttosto riflesso di un mito moderno, forse involontario, che non consente di vedere la mancanza di vocazione all’urbanità di questo agglomerato urbano che città è stata solo durante l’impero romano.

Koudelka fa a meno della gente, perché gli esseri viventi sono di passaggio, attraversano la storia senza lasciare tracce percepibili. Gli esseri che popolano questi spazi sono inanimati, statue, che sembrano fantasmi di un’epoca gloriosa passata, cani solitari e su tutto ombre lunghissime