Chi ha ucciso Herbert Fletcher DeCou, il giovane scapolo americano «tenero, disponibile e fidato» che nel 1910 partecipò in veste di epigrafista agli scavi di Cirene? Erano i tempi in cui anche l’italiano Federico Halbherr sperava di vincere la ritrosia degli Ottomani e smuovere zolle fra mirti e ginepri nel regno di Batto.
Al misterioso delitto prova a dare una risposta Emanuele Papi che, in Pietre dello scandalo. 11 Avventure dell’archeologia (Laterza, pp. 166, euro 16), ripercorre con precisione da reporter una vicenda con fosche tinte coloniali. Dai granelli di sabbia della Libia cantati come baci nei versi di Catullo alla visione di Volubilis descritta dalla romanziera Edith Wharton, il passo è breve.

IN MAROCCO, i ruderi non parlano solo la lingua degli antichi. Così l’autore attinge dall’estremo lembo occidentale d’Africa una storia di viaggi e scoperte a suon di picconi: sono quelli manovrati dai prigionieri tedeschi agli ordini del generale francese Lyautey e del tenente archeologo Chatelain.
Il campo di concentramento fu attivo nell’anno 1915 e tanto bastò perché dai postumi della Grande Guerra cominciassero a emergere le vestigia di Oualili, la città berbera in cui Roma volle sfoggiare la sua gloria.
Il filo che unisce le avventure narrate da Papi si srotola lungo il Mediterraneo, accompagnando il lettore in un percorso labirintico, nel quale – per non smarrirsi – è bene ricordare due principi.
Il primo è che le rovine, silhouette di mondi apparentemente distanti – «alieni» secondo la definizione dell’attuale direttore della Scuola Archeologica Italiana di Atene – hanno molte vite. Tra gli esempi illustrati a questo proposito nel libro, il Tempio di Debord.

Originariamente collocato sulle rive del Nilo, il monumento svetta oggi su un verdeggiante colle di Madrid. Nel 1968, infatti, venne smontato e inviato in Spagna come ricompensa per aver contribuito a salvare dalla diga di Assuan i templi della Nubia, di cui Abu Simbel rappresentava il caso più noto.
Il secondo insegnamento che Papi tiene a trasmettere è che le pietre portano con sé memorie ma non colpe. Non ne ebbe Pompei quando nel 1943 subì ripetuti bombardamenti da parte degli Alleati, persuasi (o forse no) che all’interno del sito vesuviano si nascondessero le truppe tedesche.

NEL GIRO DI UN MESE l’aviazione americana sganciò centosessantadue bombe, distruggendo la Casa del Fauno e danneggiando gravemente le domus di Trebio Valente e dei Vettii. La furia dei bombardieri non risparmiò nemmeno il Foro e, nel museo, più di mille reperti – tra cui i famosi calchi in gesso delle vittime del 79 d.C. – andarono in frantumi. Il volume, scritto con uno stile colto e a tratti irriverente, non è però una raccolta di disgrazie.
Al contrario, c’è spazio anche per gioie inusuali, quali l’eros sprigionato da impudiche figure di marmo. Nel suo trattato Psychologie pathologique del 1891, Émile Laurent affermava che per godere delle forme mutilate eppur divine della Venere di Milo – celebre scultura rinvenuta nel 1820 da un contadino sull’omonima isola cicladica e poi traslata al Louvre –, in molti fecero follie. E di certo, assieme agli adoratori di statue, tremò la Grecia tutta al pensiero di non esser solo terra di rapine.