I giornali non sono gli articoli che pubblicano, sono qualcosa di più. Il manifesto non è mai stato solo gli articoli di Rossana Rossanda, Luigi Pintor, Luciana Castellina e Valentino Parlato. No, i giornali sono idee, passione, ideologia, progetto politico. L’unica cosa certa in un quotidiano non è il direttore responsabile ma il fatto che quelle 16, 24 o 48 pagine formano un organizzatore collettivo, uno strumento che nasce e vive per incidere nella società che lo circonda. Questo è il motivo per cui il manifesto quotidiano nacque nel 1971 e questo è il motivo per cui esiste ancora oggi, anche dopo la tragica perdita di Rossana.

I GIORNALI non sono uffici del catasto e nemmeno ministeri: sono imprese bizzarramente artigianali e per questo spazi di libertà, a condizione di avere una vita collettiva. Nessuno ha mai fatto un buon giornale rinchiudendo i redattori nelle loro stanzette o nei deprimenti open space che le follie manageriali hanno imposto una trentina d’anni fa, men che meno nel cosiddetto smart working di cui si parla oggi. E l’unico momento veramente collettivo di una redazione è la riunione del mattino, una riunione che nei brutti giornali (la maggioranza) è fatta dai soli capiredattori e capiservizio mentre nei bei giornali riunisce tutti, anche i neoassunti che per anni non osano aprire bocca di fronte al Direttore.

La riunione del manifesto è sempre stata così. Quelle lontane nel tempo, di cui ho esperienza diretta, iniziavano verso mezzogiorno (o più tardi) e avevano durata incerta: interminabile quando c’erano questioni politiche scottanti, relativamente breve quando il tema della giornata era chiaro e si trattava soltanto di decidere come affrontarlo e cos’altro mettere nelle pagine (che, come si sa, erano poche: il giornale nacque con sole 4 pagine fitte e senza foto, non c’era spazio per le frivolezze).

LA RIUNIONE si teneva al quinto piano di via Tomacelli 146, in una stanza troppo piccola e invasa dal fumo delle Gauloises di Valentino Parlato e dei sigari di vari altri tabagisti. Era il regno dei capiredattori Luca Trevisani e Michele Melillo, che venivano dall’Unità e sapevano come far funzionare la macchina. Tutti partecipavano: i fondatori, e tutti i «giovani», cioè un gruppetto di entusiasti la cui unica esperienza precedente erano i volantini davanti alle scuole o alle fabbriche, oltre ai tecnici, tipografi e fattorini alla pari con gli altri (anche gli stipendi erano rigorosamente uguali per tutti).

Dopo una breve esposizione delle notizie del giorno la domanda implicita naturalmente era «Cosa dice Rossana?». Che non sempre aveva voglia di rispondere sul momento: voleva riflettere, guardare alle cose con una visione di lungo periodo, le 24 ore del quotidiano le stavano strette. Tutto il contrario di Luigi Pintor, che alle riunioni parlava poco, quasi solo se richiesto, ma naturalmente stupiva tutti per l’immediatezza e la lucidità delle sue analisi. La brevità dei suoi interventi era del resto coerente con la precisione dei suoi editoriali (mai più di 60 righe) e di solito lasciava la riunione dicendo: «Scrivo, ma se non va bene metteteci qualcos’altro».

Le riunioni con Rossana e Luigi erano un formidabile strumento di motivazione dei giovani e mal pagati redattori, o dei collaboratori che non erano pagati affatto ma si nutrivano della vicinanza con persone che avevano letto tutto, visto tutto, conosciuto tutti. Rossana aveva fatto la resistenza a Milano, incontrato Sartre, Fidel Castro, Salvador Allende. Il suo amatissimo compagno Karol S. Karol, era un polacco che aveva perso un occhio combattendo contro i nazisti, conosceva Mao e Ciu Enlai, mandava reportage dai quattro angoli del mondo (fra cui quello dalla Cina pubblicato nel n. 1 del giornale, il 28 aprile 1971). In quale altro luogo i giovanissimi veneziani, torinesi o napoletani avrebbero potuto fare esperienze comparabili? +

Questo è il motivo per cui il manifesto degli anni Settanta-Ottanta ha prodotto una quantità di giornalisti che sarebbero diventati molto noti una ventina d’anni dopo, come Lucia Annunziata presidente della Rai, oltre a uno scrittore come Domenico Starnone. La politica ci ha separato da molti di loro ma nessuno ha mai rinnegato la scuola di rigore e precisione che avevano creato Rossana e Luigi.

La riunione di redazione aveva, naturalmente, anche i suoi inconvenienti. Uno, per esempio, era la rigidità che un meeting tardivo e verboso creava nel quotidiano, che doveva chiudere presto per arrivare in Sicilia, in Sardegna o in Friuli. Se il pomeriggio succedeva qualcosa di non previsto Michele Melillo, il caporedattore siciliano che aveva il controllo delle pagine, detestava cambiare il menabò, fosse pure per l’eruzione del vulcano Krakatoa.

C’È UNA FOTO di anni lontani, forse il 1988-89, che ritroverete in queste pagine, in cui al centro troneggia Rossana, vestita di nero e a braccia incrociate, più severa che mai, un’immagine che non rende giustizia a una donna che amava i giardini, i fiori, i gatti, la cucina (ricordo ancora i suoi dolci rimproveri per non aver rosolato a dovere le patate, una sera con lei e Karol in Quai de Grands Augustins, a Parigi).

Nella foto ci sono anch’io, in alto a sinistra, con un bizzarro papillon che non ricordo di aver mai posseduto, eppure è lì. Sono nella foto assieme a Tommaso Di Francesco, riconosco Maurizio Matteuzzi e Gigi Sullo, ma insieme a noi ci sono tante, troppe, persone che ci hanno lasciato per sempre: non solo Rossana ma anche Luigi, Valentino, Astrit Dakli, Giuseppina Ciuffreda, Angela Pascucci, Rina Gagliardi. Ma vorrà dire pur qualcosa se, a quasi mezzo secolo dal suo primo numero, il quotidiano esiste ancora, sopravvissuto a mille crisi e in migliore salute di testate con ben altri mezzi e ben altri protettori.