Tre giorni fa Loujain al-Hathloul ha “festeggiato” il suo 30esimo compleanno dentro la cella di una prigione saudita. Attivista per i diritti umani, è una delle undici donne detenute un anno e tre mesi fa per la loro lotta politica.

Arrestate alla vigilia del decreto con cui Riyadh cancellava il divieto di guida per le donne, diritto per cui le undici attiviste si sono battute mettendosi al volante. Restano in prigione nonostante non sia più reato quel che hanno commesso.

Una contraddizione che racconta molto della repressione del dissenso dalle parti del Golfo. E che fa prendere con le pinze la storica apertura annunciata ieri dalla petromonarchia: l’Arabia saudita ha ridotto il raggio d’azione della più odiosa delle pratiche, il sistema del guardiano.

Le donne sopra i 21 anni potranno viaggiare e chiedere il rilascio del passaporto senza il permesso di un uomo, che sia il padre, il marito o un fratello. Potranno ricevere in custodia i figli.

Ma non potranno iscriversi all’università, curarsi in ospedale o chiedere protezione in caso di abusi. Restano cittadine di serie B. Una svolta a metà – perché il sistema del guardiano rimane in vigore – e potenzialmente storica solo se le autorità vigileranno l’effettiva applicazione da parte di una società profondamente patriarcale e conservatrice.

Pilastro legislativo anche di altre monarchie sunnite, il sistema del guardiano è il frutto di un’interpretazione erronea e radicale dell’islam, propria della dottrina wahhabita fondatrice del regno saudita. Da un paio di anni alcune delle restrizioni previste sono cadute (nel 2017 era stato permesso alle donne di affittare proprietà e avviare imprese), ma in piedi rimane la natura profonda della discriminazione, quella che considera la donna incapace di provvedere a se stessa, non solo indegna di godere di pieni di diritti ma anche di reclamarli.

A promuovere l’ultima revisione del sistema del guardiano è stato Mohammed bin Salman, potente principe ereditario coccolato da mezzo mondo ma nei guai dallo scorso ottobre quando, nel consolato saudita di Istanbul, fu ucciso e fatto a pezzi il giornalista dissidente Jamal Khashoggi.

La buona stella del principe ne è uscita ammaccata: se il presidente Usa Trump è rimasto al suo fianco e i paesi europei, al di là di parole di disapprovazione, non hanno messo in dubbio storiche alleanze, il Congresso americano tenta da mesi di interrompere i rapporti militari con Riyadh e qualche governo europeo (Germania, Finlandia, Olanda e Danimarca) ha congelato la vendita di armi.

MbS è un campione nella strategia dell’imbellattamento del regime attraverso riforme di facciata (tutte infilate nel calderone del programma Vision 2030) per scacciarsi di torno le accuse di abusi sistematici dei diritti: prima è caduto il divieto a guidare, poi quello a entrare allo stadio.

Sullo sfondo restano le discriminazioni ufficiose per genere, etnia, confessione, con la minoranza sciita incarcerata e repressa (e le sue comunità, in alcuni casi, rase al suolo), i lavoratori migranti in condizioni di semi-schiavitù e i critici del regime (blogger come Raif Badawi) dietro le sbarre, puniti con frustate e isolamento.

Da cui la necessaria cautela di associazioni e individui, soprattutto alla luce del prosieguo della detenzione delle attiviste (in cella come al-Hathloul, ci sono Samar Badawi e Nassima al-Sada, altre otto sono state rilasciate su cauzione ma non prosciolte), che in carcere hanno subito – denunciano i loro avvocati – violenze sessuali e torture.

«Vorrei ricordare alla gente che queste riforme non ci sarebbero mai state se Loujain e le altre non avessero messo in pericolo le proprie vite – ha commentato la sorella, Lina al-Hathloul – Guidare è davvero una buona cosa per le donne. Ma dall’altra parte, se fermano le riformatrici, le sbattono in galera e le torturano, c’è da chiedersi se queste riforme siano realmente positive».