La situazione in Cina continua a provocare instabilità sui mercati internazionali. Le cause sono dovute ai dubbi sulla salute dell’economia cinese, tra rallentamento, problematiche legate al mercato interno, manovre della Banca centrale cinese. Il dato del Pmi (l’indice d’acquisto del manifatturiero) in agosto è al 47,1, al di sotto di quel 50 che costituisce il confine tra crescita e contrazione.

A luglio le esportazioni hanno segnato un meno 8%, mentre gli shock delle borse di Shanghai e Shenzhen hanno portato perdite ingenti per quella classe media che la dirigenza aveva eletto a potenziale motore della trasformazione economica del paese. Cause ed effetti economici di una difficoltà a governare il paese nel mercato e segnali che qualcosa non torna neanche nella gestione del potere politico, se è vero che tutto quanto accade anche all’esterno della Cina ha motivazioni e finalità interne.

Meno analizzato, infatti, è stato quanto sta succedendo all’interno del paese, dal punto di vista politico. I dubbi sullo stato dell’economia cinese sono legittimi, il rallentamento di Pechino potenzialmente può dare vita a fenomeni negativi per tutta l’economia mondiale, perché l’intreccio tra Cina e Usa ad esempio, determina la natura degli assetti economici globali. Tutto è collegato, ma le questioni politiche cinesi seguono una logica propria e rappresentano lo scenario del paese anche nella sua proposizione internazionale.

Negli ultimi tempi si è sempre descritta la potenza della leadership di Xi Jinping, capace di accentrare parecchio potere, provocando la fine dell’era «collegiale» del Partito. Ma la sua campagna anti corruzione ha provocato non pochi malumori all’interno di gruppi di potere che non sembrano intenzionati ad abdicare al proprio ruolo. In Cina l’economia, la finanza vanno a braccetto con la politica.

I gruppi di potere politico del Partito gestiscono importanti fette dell’economia nazionale (sicurezza, risorse, investimenti). Questo provoca scontri tra gruppi di interessi che il più delle volte non emergono in superficie, ma si consumano in battaglie sottotraccia. Xi Jinping, mettendo sotto inchiesta e arrestando centinaia di funzionari, ha scombussolato le acque che parevano essersi placate dopo il grave scandalo che aveva preceduto proprio la sua incoronazione (il caso Bo Xilai).

Ora, però, pare che lo scontro sia palese. I dati sono i seguenti: nelle settimane scorse un durissimo editoriale del Quotidiano del Popolo criticava l’attivismo politico di ex leader che ormai si sono ritirati. Il riferimento era chiaramente a Jiang Zemin, i cui alleati sono caduti uno dietro l’altro per i colpi di Xi. Ma l’editoriale è un avvertimento ad un ex leader che ancora conta all’interno della macchina del Partito e dello stato. E un paio di giorni fa un altro articolo sembra aver lanciato una nuova minaccia: le riforme di Xi Jinping starebbero incontrando una «inimmaginabile» resistenza nel Partito.

Si tratta di un articolo importante, riportato anche dal sito della Cctv e che sta facendo discutere parecchio in Cina.

La dirigenza del Pcc, quindi, sarebbe divisa e starebbe ingaggiando una battaglia contro le volontà di cambiamento di Xi. Ma su queste ultime è bene essere chiari: non si tratta di cambiamenti in senso democratico (come si è chiesta ad esempio Marianna Mazzucato qualche giorno fa su Repubblica) quanto di «riforme» che mirano a sostituire le vecchie cupole del potere con nuove alleanze.

Come specificato su Foreign Affairs di luglio da Youwei, pseudonimo utilizzato da un professore universitario cinese, Xi ha realizzato importanti riforme per l’agricoltura, per lo sviluppo dell’imprenditoria, sulla sicurezza sociale. Ma, specifica il professore, mancano ancora quelle più importanti sulle aziende di stato, sulla terra e sui poteri fiscali dell’Assemblea nazionale. Riforme fortemente osteggiate. Il desiderio di quasi tutti i potenti del Partito è che in realtà nulla cambi: che il socialismo di mercato della Cina possa riformarsi, senza dover provocare scossoni ai centri di potere.

Ma questo atteggiamento è ormai messo in discussione da un’economia in difficoltà, nella quale proprio la gestione del potere clientelare e basata sulla volontà di carriera dei funzionari, porta a investimenti fallimentari. La campagna anti corruzione, inoltre, pare aver bloccato molti degli investimenti (specie nel mattone) che fino a poco tempo costituivano uno dei motori principali dell’economia.

Allo stesso tempo, queste lotte interne sembrano rallentare gli investimenti nell’innovazione e nel settore dei servizi, determinanti per un mercato interno trainante.

Le difficoltà economiche potranno trovare una loro conferma o smentita a breve, perché il Partito a settembre presenterà i numeri generali della propria economia, benché sussista sempre la difficoltà a sapere se i dati presentati da Pechino siano realistici o meno. Intanto nei giorni scorsi la Banca centrale cinese ha immesso sul mercato 110 miliardi di yuan per 14 istituti finanziari per un periodo di 6 mesi, ad un tasso del 3,35%.