Anche i detrattori della filosofia della storia hanno rischiato di vedere nel passaggio dal fordismo al postfordismo un progresso, segnato dalla fine dell’uguaglianza coatta del regime di fabbrica sotto la spinta di un’istanza di liberazione dal lavoro. Ora che la libertà neoliberale rivela la matrice di una precarizzazione globale e senza confini, possiamo guardare indietro per comprendere che cosa sia cambiato nella vita comunque messa al lavoro.
Nel suo Fortune del femminismo. Dal capitalismo regolato dallo Stato alla crisi neoliberista (ombre corte, pp. 284, euro 24) – che raccoglie saggi pubblicati tra il 1985 e il 2010 – Nancy Fraser ripercorre questo passaggio attraverso le lenti del femminismo, la cui fortuna consiste nel fatto di aver contribuito a determinarlo. Il discorso femminista è globale perché l’ineliminabile parzialità del suo sguardo riemerge comunque all’interno di qualsiasi scenario. Con la sua critica al «capitalismo androcentrico e organizzato dallo Stato», però, il femminismo (in particolare quello statunitense) avrebbe ceduto alle lusinghe del «nuovo spirito del capitalismo», accordando priorità alla critica dei «modelli culturali» rispetto a quella dell’economia politica, alla rivendicazione del riconoscimento delle differenze anziché a una redistribuzione egualitaria. Per Fraser il femminismo deve liberarsi dalla sua liaison dangereuse con il neoliberalismo se vuole riaffermare il suo potenziale di «emancipazione». La ricostruzione storica permette di interrogarsi sulle possibilità di una trasformazione radicale anche dopo – e nonostante – la fine della storia.

Una giustizia bidimensionale

L’insistenza sull’emancipazione è un tentativo di rivalutare la «politica dell’uguaglianza» alla luce di una comprensione storica e non dogmatica della sua distanza e opposizione con la «politica della differenza». Non si tratta di descrivere una polarizzazione irresolubile, ma di indagare l’uguaglianza come problema irrisolto di un’irrinunciabile differenza. Fraser articola perciò un approccio «bidimensionale» alla giustizia di genere che consideri le sue implicazioni sia dal punto di vista della classe sia da quello dello status. La subordinazione delle donne, infatti, è radicata nella struttura economica della società, ma è anche il risultato di «modelli androcentrici istituzionalizzati» che investono il diritto, le politiche pubbliche, la cultura popolare.

L’idea di emancipazione sostenuta da Fraser, allora, non coincide con uno schieramento di principio per l’uguaglianza. Piuttosto, il potenziale emancipativo dell’uguaglianza come della differenza può essere misurato solo rispetto alla loro capacità di modificare rapporti di subordinazione storicamente determinati. Lo sguardo bidimensionale produce quindi una sorta di «storia e teoria politica degli effetti», che mira a indagare come le conseguenze politiche di una rivendicazione mutino in relazione al contesto, rideterminando le condizioni della soggettivazione.

Nel contesto del capitalismo del secondo dopoguerra, l’effetto della rivendicazione dell’uguaglianza come redistribuzione da parte delle donne avrebbe posto in questione la divisione sessuale del lavoro. Nel contesto neoliberale, però, la crisi della tradizionale distinzione tra uomo-breadwinner e donna-housewife è stato quello di «intensificare la valorizzazione capitalistica del lavoro salariato» delle donne su scala globale. Contemporaneamente, la critica allo statalismo dei regimi di welfare e alla natura oppressiva dello Stato sociale sarebbe stata incorporata nel processo di riduzione della spesa pubblica e di privatizzazione dei servizi spianando la strada al neoliberalismo.

La divisione sessuale del lavoro

Fraser
Sono, questi, solo due esempi di quelle che Fraser definisce «astuzie della storia», con un richiamo all’hegeliana astuzia della ragione che segnala la comprensione di un movimento globale che supera, incorporandole, le sue minacciose contraddizioni.

Per Fraser, che combina «marxismo e svolta culturale», il neoliberalismo non è solo una «razionalità di governo», ma anche una nuova modalità di organizzazione della produzione e riproduzione sociale. La coazione neoliberale alla libertà ha effetti specifici quando a praticare quella libertà sono le donne, iscritte in un regime di divisione sessuale del lavoro ancora vigente, per quanto diverso da quello del secondo dopoguerra.

Se l’uguaglianza deve investire il lavoro di cura facendone una questione pienamente sociale, deve allora esserci una trasformazione tanto della struttura della riproduzione quanto dei modelli culturali che la sostengono. Così, Fraser utilizza la pretesa dell’uguaglianza non come una memoria o una nostalgia, ma come una contraddizione che il regime neoliberale continua a riprodurre e che può essere radicalizzata in modo che le differenze non siano più catturate nel suo movimento astuto.

Tuttavia, le tre parole che rivendica nell’ottica dell’emancipazione – redistribuzione, riconoscimento e rappresentanza, cioè l’estensione delle possibilità di prendere parola – non esprimono tutta la forza di questa prospettiva. La via indicata, infatti, sarebbe di imporre ai mercati un nuovo controllo politico. Perciò è difficile capire come si possano «smantellare i ruoli di genere e la loro codificazione culturale» se il capitalismo – che per Fraser è intrinsecamente androcentrico – non va messo in discussione ma solo «domato». Inoltre, pur riconoscendo il declino dell’ordine keynesiano-westfaliano, Fraser non dice molto su quali siano le istituzioni che dovrebbero provvedere a imporre quel controllo politico.

Nostalgia dello Stato

La mancata trattazione di questo problema rischia di tradursi in una nostalgia mai esplicitata per lo Stato, o nella semplice ammissione della necessità di riconfigurare il rapporto tra diritti civili, politici e sociali di fronte all’obsolescenza del modello che puntava a costruire una relazione determinante tra cittadinanza e classe sociale.

Nonostante i limiti della sua proposta normativa, Fraser indica al femminismo questioni rilevanti. Mentre si discute su come la libertà femminile possa sfuggire alla presa della «libertà neoliberale», parlando di uguaglianza Fraser pone il problema delle condizioni materiali della libertà. Non si tratta di una disputa tra scuole, ma della capacità del discorso politico femminista di essere significativo per le donne, di uscire dai confini di un dibattito elitario per diventare parte di una lotta controegemonica. In questa prospettiva va letta la scelta di storicizzare anziché decostruire. Per Fraser, la «storia degli effetti» è essenziale sia per comprendere sia per prevenire il «cedimento» della teoria femminista all’incorporazione neoliberale. La dimensione storica diventa però evanescente quando la sua proposta non fa i conti fino in fondo con le trasformazioni dello Stato nel contesto globale.

Pensare questa dimensione istituzionale rimane questione aperta, che difficilmente può risolversi evocando una microfisica del welfare. D’altra parte, Fortune del femminismo non offre una teoria politica immediatamente spendibile, ma invita a «diventare storicamente consapevoli», soprattutto «quando operiamo su un terreno popolato dal nostro inquietante doppio».

* Una versione più lunga di questa recensione è su www.connessioniprecarie.org