C’è stato un tempo in cui le Regioni del Nord invocavano la secessione. C’è stato un tempo in cui i cittadini con il voto hanno bocciato la devolution. C’è un tempo, oggi, in cui le Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna – seguite da molte altre – hanno avviato, con modalità differenti, la procedura per richiedere al governo ulteriori forme di autonomia in attuazione dell’art. 116, terzo comma, della Costituzione. C’è un tempo, oggi, in cui è in discussione il rapporto tra Stato e Regioni, e secessione e devolution sono un rischio concreto.

La Regione Veneto chiede di trattenere i 9/10 delle risorse prodotte sul territorio. La Lombardia ha chiesto che il trasferimento di risorse dallo Stato avvenga in ragione della capacità fiscale del territorio. Tutte chiedono di poter legiferare autonomamente in fondamentali materie (sanità, istruzione, lavoro, ambiente, infrastrutture, beni culturali, ecc.). Il ministro Erika Stefani assicura che i trasferimenti di risorse, connessi a quelli di competenze, avverranno in ragione della spesa storica e diritti e servizi saranno garantiti ovunque. Ma l’Italia è ancora un paese in cui diritti e servizi pubblici o non sono garantiti o lo sono in misura diseguale a seconda della regione in cui nasci perché non sono normati (e finanziati adeguatamente) tutti i Livelli Essenziali delle Prestazioni e le leggi quadro, e ridefinire i trasferimenti tra Stato e Regioni in base alla spesa storica cristallizza queste inaccettabili carenze e diseguaglianze.

C’è un tempo, ancora oggi, in cui la possibilità di veder soddisfatti i Livelli Essenziali di Assistenza (Lea) dipende da dove vivi e per avere cure sanitarie adeguate potresti dover emigrare in un’altra regione; in cui il tuo comune spende per i servizi sociali 21 euro pro-capite se vivi in Calabria e 162 se vivi in Emilia Romagna; in cui se nasci in Piemonte hai (solo) il 26% di possibilità di trovare posto in un nido pubblico (e in Sicilia l’8,9%); in cui solo 1/3 delle classi ti garantisce il tempo pieno (il 19,7% nel Nord Est, il 5% nelle Isole); in cui, pur essendo idoneo, non ti è assicurata la borsa di studio universitaria per mancanza di fondi; in cui se nasci in Umbria i Centri per l’impiego sono solo 5 e con una dotazione informatica insoddisfacente (al Sud nel 70% dei casi); in cui potresti vivere in una regione (Veneto) che cerca di derogare a norme nazionali di tutela ambientale con leggi regionali (tentativo recentemente bocciato dalla Consulta).

In questo tempo, prima di riconoscere maggiore autonomia ad alcune Regioni, è necessario garantire l’eguaglianza delle possibilità, dei diritti, dei servizi pubblici, delle tutele a tutti i cittadini: è prioritaria la definizione di tutti i Livelli Essenziali delle Prestazioni, con l’adeguata copertura finanziaria, e di norme a tutela generale non derogabili da nessun territorio.

In questo tempo, oggi, concedere maggiore autonomia ad alcuni vuol dire lasciare indietro gli altri, rendendo i diritti universali un privilegio dato dalla residenza, vuol dire affrontare problematiche comuni con la regionalizzazione della rivendicazione e tradire il principio solidaristico della perequazione. Vuol dire avere un tempo, domani, in cui sarà istituzionalizzata la difformità della garanzia dei diritti (a ricevere cure adeguate, all’istruzione, a prestazioni sociali…) e delle politiche pubbliche (per il lavoro, per la tutela dell’ambiente e del paesaggio, per il governo del territorio…), e in cui sarà in discussione l’unitarietà della contrattazione nazionale.

Per la Cgil l’autonomia e il decentramento, o sono finalizzati a realizzare un federalismo cooperativo e solidale, capace di valorizzare le specificità territoriali e promuovere forme di avanzamento e sviluppo da mettere a fattor comune, in un quadro nazionale di principi inderogabili, o non sono. Non possiamo condividere un procedimento che, in un paese così diseguale, porterà alla disarticolazione territoriale dell’esigibilità dei diritti con la creazione di 20 sistemi differenti.

*Responsabile Ufficio Riforme Istituzionali Cgil Nazionale