Ci sono libri il cui pregio non è quello di offrire nuova documentazione né, tanto meno, di ribaltare, magari un po’ enfaticamente, il già conosciuto, nel nome di un qualcosa di inedito che poi, alla prova del tempo, rivela invece la sua inconsistenza. La forza di certe riflessioni, che costituiscono sintesi articolate di lunghi percorsi di studio e analisi, è infatti quella di permettere al lettore italiano di comprendere il quadro di avanzamento delle ricerche in materia, restituendogli non solo il complesso panorama intellettuale ma anche quello intrinsecamente etico di una disciplina, la storia, che non può sfuggire dall’essere essa stesso oggetto della sua riflessione. Esiste un’istanza di autocoscienza alla quale lo studioso non può sottrarsi ed essa si manifesta tanto più dal momento in cui la disciplina medesima si confronta con quegli eventi di lungo periodo il cui lascito morale va ben oltre la cornice fattuale entro la quale si risolsero.

I TEMI DEL DEPOSITO resistenziale, del rifiuto attivo dei fascismi europei, quindi delle condizioni storiche, e politiche, in cui l’uno e l’altro maturarono, assolvono pienamente all’esigenza di recuperare un quadro di moralità dell’azione umana nell’età dell’oppressione più cieca e brutale. Anche per questa fondamentale ragione la loro eco continua a manifestarsi a distanza di molti decenni dagli eventi materiali che ne connotarono le manifestazioni. Non di meno, da tempo è maturata una storiografia che ha manifestato la capacità di formulare valutazioni di merito basate sulla complessità dei processi che portarono al rigetto del nazifascismo.

Si inserisce in questa direttrice il lavoro di Daniele Susini dedicato a La Resistenza ebraica in Europa. Storie e percorsi, 1939-1945 (Donzelli, pp. 239, euro 28). L’autore, studioso ed educatore, partecipa a pieno titolo a quel percorso che negli ultimi tre decenni ha investito integralmente la ricerca e la divulgazione storica, laddove entrambe sono diventate parte integrante della formazione alla cittadinanza costituzionale.

Si tratta di un fenomeno rilevante, a volte invece sottovalutato nel suo ampio impatto – soprattutto tra le generazioni più giovani – dalla storiografia di taglio più tradizionalmente accademico. Quest’ultima, infatti, pare fare fatica ad intercettare il bisogno di diffusione e fruizione che è andato consolidandosi nel tempo. Per certi aspetti, le tante attività che si sono articolate intorno alle scuole, a partire dalle offerte didattiche degli istituti storici della Resistenza, al pari di iniziative come i treni della Memoria, hanno contribuito a trasformare alcuni aspetti della medesima disciplina, accentuandone le componenti più divulgative. Non può peraltro sfuggire un altro aspetto della questione, ossia che questa trasformazione, la quale investe anche lo statuto civile del fare storia, si accompagni al declino, che si è fatto oramai per più versi estinzione, delle funzioni di pedagogia civile che fino agli anni Ottanta erano state invece svolte dagli organismi di intermediazione partitica e sindacale.

IN ALTRE PAROLE, nel modo corrente di rapportarsi alla storia come racconto del passato, interviene drasticamente la radicale diversità con la quale si elabora il proprio presente. Peraltro, sempre più spesso una parte crescente di studiosi e ricercatori si trova ad operare al di fuori delle reti istituzionali, ovvero alla strutturazione professionale e retributiva dentro le università, venendo tuttavia frequentemente chiamata ad interagire con i contesti della formazione dell’opinione pubblica, a partire dalle scuole passando per la pubblicistica e l’informazione.

Questa premessa di merito è imprescindibile se si intende capire in quale specifico quadro di relazioni sociali si inerisce il lavoro dello storico ai giorni nostri, cercando di rapportarne i contenuti alle condizioni materiali in cui opera. Il libro di Susini, in buona sostanza, sembra essere depositario di tutti quegli elementi e di quelle istanze che germinano all’interno di questo profilo collettivo, che è anche il racconto che una generazione adulta fa di sé osservando e valutando quanti l’hanno preceduta. Parlare di resistenza ebraica è quindi un po’ una cartina di tornasole delle trasformazioni che hanno investito la disciplina e i suoi praticanti. Poiché riformula alcuni criteri con i quali definire un fenomeno storico corale, le lotte contro i fascismi e per la liberazione di intere società, indagando le tante declinazioni soggettive che ne hanno connotato l’intrinseco pluralismo.

IL LIBRO DI SUSINI, che è un valido repertorio dei diversi aspetti intervenuti nell’opposizione ebraica al delirio persecutorio e genocida, evita la tentazione enciclopedica ma si offre comunque per la sua apprezzabile completezza. Alcuni aspetti rilevano alla lettura. Il primo di essi è il problema dello sguardo storico: la resistenza in campo ebraico nacque non come un atto politico dovuto nei confronti di una collettività più ampia, che si era invece fatta estranea, se non ostile, nel momento stesso in cui precipitava nell’abisso morale dell’accettazione dello sterminio. Rispondeva semmai all’esigenza individuale di sopravvivenza. Non di meno, l’ebraismo mai fu un soggetto socialmente e culturalmente omogeneo. La sua sfaccettata articolazione continentale nelle diverse società di appartenenza lo rende quindi sfuggente ad uno sguardo univoco. Così come a valutazioni univoche.
L’autore lo evidenzia in diversi passaggi, soprattutto laddove sottolinea la condizione di solitudine ed abbandono alla quale i singoli, così come le stesse comunità ebraiche, dovettero pressoché immediatamente fare fronte dal momento in cui le violenze si tradussero in politica di Stato. La rottura dei legami civili con il resto delle società rappresentò una gravissima offesa, decisiva nella costruzione dei profili delle diverse risposte che vennero faticosamente formulate in anni dove la mancanza di qualsiasi informazione sul proprio destino si intrecciava alla certezza dell’esclusione da ogni ambito della vita legale.

La storia della resistenza ebraica diventa quindi uno spaccato antropologico di quell’agire motivato dal bisogno esistenziale di salvarsi, in una condizione dove donne e uomini erano ricondotti alla più elementare delle condizioni di natura, quasi che l’unico orizzonte ancora possibile fosse quello meramente biologico, oltre il quale non c’è solo la morte individuale bensì anche l’estinzione collettiva. L’opera di Susini, intrecciando vicende diverse e ricostruendo causalità e consequenzialità, si adopera in un rilevante sforzo concettuale. Alla difficoltà di fare perimetro, con le categorie abituali, intorno a fenomeni altrimenti compositi (trattandosi, come direbbe Enzo Traverso, al medesimo tempo di «una visione accecante e di una comprensione traballante»), cerca quindi di contrapporre letture che non si adagino sui paradigmi vittimistici e passivizzanti («pecore al macello»).

IL FUOCO DELLA SCRITTURA si adopera quindi intorno alle dinamiche che intercorsero tra maturazione della comprensione del significato dei fatti che si stavano consumando a proprio danno, attivazione di risposte autodifensive, ricerca di sodalizi e cooperazioni con il mondo circostante. Non di meno, ed è un altro passaggio significativo, l’autore ci invita a non considerare la storia dei resistenti ebrei solo alla luce dell’epilogo, la «soluzione finale» praticata dal nazifascismo. Argutamente argomenta che se quello fu il concreto destino dei molti, non di meno la partecipazione disperata e spesso senza speranze alla lotta di Liberazione in tutta Europa deve essere letta, tanto più oggi, anche come un fenomeno autonomo, che portò chi cercava di fuggire alla morte all’immedesimarsi con un più generale moto di opposizione, armata e non che fosse. Cogliere i processi e le dinamiche di contesto è sia un atto imprescindibile di metodo per chi fa ricerca e comunicazione storica, sia una restituzione di dignità a quegli agenti di storia, che allora lottavano per non essere definitivamente ingoiati da un abisso senza fine.