Uwe Timm è abituato a misurarsi con le contraddizioni della storia tedesca, le zone d’ombra e le linee di confine che hanno segnato profondamente anche le vicende della sua famiglia. Non a caso, tra le opere più note dello scrittore, considerato un esponente significativo della scena intellettuale cresciuta in Germania dopo il Sessantotto, c’è Come mio fratello (Mondadori, 2005), un romanzo dedicato alla vicenda di Karl-Heinz, il fratello maggiore arruolatosi volontario nella divisione Totenkopf delle SS, morto a 19 anni in Ucraina e al modo in cui quella scelta terribile fu vissuta dalla sua famiglia.

Nato ad Amburgo nel 1940, Timm che vive da tempo a Monaco dopo lunghi periodi di studio e lavoro tra Francia gli Stati Uniti e Italia, ha partecipato ai movimenti studenteschi della fine degli anni Sessanta ed è stato a lungo una delle voci più note della sinistra culturale tedesca. Tra le sue opere pubblicate anche nel nostro paese, i romanzi La scoperta della currywurst (Le Lettere, 2003), che torna sulla tragedia del conflitto e del secondo dopoguerra tedesco, L’amico e lo straniero (Mondadori, 2005) e Rosso (Le Lettere, 2005), entrambi incentrati sulla storia e il bilancio del Sessantotto e dei suoi protagonisti in Germania, oltre alla serie di racconti per l’infanzia che hanno come protagonista Mimmo il maialino corridore.

IL SUO NUOVO ROMANZO, Un mondo migliore, pubblicato da Sellerio in occasione del Giorno della Memoria (traduzione di Matteo Galli, pp. 518, euro 15,00) si muove ancora una volta con grazia lungo il confine tra la ricostruzione storica e la disanima interiore, attraverso figure che si misurano con scelte e orizzonti che peseranno a lungo sul destino del mondo intero. I piani narrativi, che il titolo dell’edizione italiana del libro – in tedesco era Ikarien – rende immediatamente, sono due: da un lato la scoperta della Germania all’indomani della caduta del Terzo Reich attraverso gli occhi di Michael Hansen, un giovane militare americano di origine tedesca mandato in missione per indagare sui crimini degli scienziati nazisti, dall’altra la ricostruzione della traiettoria umana e scientifica di Alfred Ploetz, uno dei padri degli «esperimenti» di eugenetica razziale sui quali prenderà forma lo stesso progetto della Soluzione finale.

E sarà proprio indagando su Ploetz, morto nel 1940, attraverso i ricordi di un suo compagno di gioventù, Karl Wagner, imprigionato nel campo di concentramento di Dachau dai nazisti perché vicino ai socialdemocratici, che Hansen scoprirà come il futuro artefice dell’«igiene razziale» hitleriana fosse stato inizialmente un seguace delle teorie del filosofo francese Étienne Cabet, fautore di una società utopica che voleva annullare ogni differenza tra gli esseri umani e al quale si ispireranno diverse «comuni» sorte in particolare negli Stati Uniti alla fine dell’Ottocento. Allontanatosi progressivamente dall’utopismo socialista e abbracciata la dottrina nazionalista delle «radici nordiche» della Germania, Ploetz sposterà la sua attenzione dal superamento delle differenze di carattere sociale a quelle biologiche. Nei suoi diari scriverà: «L’uguaglianza può essere raggiunta solo da uno sviluppo superiore generale (…) Ci deve essere una rivoluzione biologica che vada ad integrare quella sociale».

«Il romanzo – spiega Uwe Timm – è nato dalla mia volontà di capire come fosse stato possibile che un uomo come Ploetz, che era stato socialista, una volta dedicatosi alla scienza avesse potuto trasformare il suo anelito all’uguaglianza nel progetto dell’”igiene razziale”, in quella prospettiva eugenetica che dall’eliminazione delle persone con handicap fisici o mentali avrebbe condotto via via fino ad Auschwitz».

Lo scrittore tedesco Uwe Timm

LA DERIVA RAZZISTA, e omicida, di Ploetz, come quella di altri scienziati nazisti, sembra evocare da questo punto di vista alcune delle tesi esposte da Adorno e Horkheimer nella Dialettica dell’illuminismo, dove si evidenzia come dall’autodeterminazione razionale degli individui il progetto illuminista si sia risolto talvolta nel suo opposto, come accaduto ad Auschwitz. Non a caso, Timm ricorda che «l’eugenetica interessò inizialmente anche i socialisti perché sembrava porre un interrogativo su come creare una forma di uguaglianza che riguardasse ogni aspetto dell’umanità, non solo quello sociale. E già prima dei nazisti, la sterilizzazione forzata di alcuni cittadini fu praticata in Danimarca come negli Stati Uniti negli anni Venti. E ancora nel dopoguerra fu praticata nella Svezia governata dai socialdemocratici».

Perciò, se è evidente come il nazismo fece di queste pratiche, fino alla progressiva definizione del progetto di sterminio razziale, il cuore stesso dell’«ordine nuovo» che intendeva costituire in tutta Europa, secondo lo scrittore, è l’idea stessa che la scienza possa progredire senza interrogarsi minimamente sulle proprie scelte ad interrogare ancora l’umanità. «All’epoca si volevano creare “bambini ariani” attraverso il progetto Lebensborn, oggi si cerca di manipolare i cromosomi. Tutto ciò deve essere discusso, si deve tracciare una linea rossa. Gli scienziati dovrebbero impegnarsi in una discussione pubblica sulla responsabilità, e quindi anche sulla moralità delle loro scelte. Ploetz. come anche Darwin del resto, pensavano che la scienza avrebbe risolto tutto. Le considerazioni politiche e morali erano state messe completamente da parte. Prima della Seconda guerra mondiale gli scienziati tendevano a credere che tutto avvenisse nell’uomo. Le ragioni sociali, il contesto nel quale si viveva erano considerati solo marginalmente come causa di malattie e infezioni. Si legava tutto alla teoria dell’ereditarietà. Era un approccio fatale che sappiamo a cosa ha condotto».

IL MODO NEL QUALE si è costruita la «modernità» dell’Europa e il suo intreccio con lo sviluppo dello stesso nazionalsocialismo sono del resto da tempo al centro del lavoro di Timm, autore, già nel 1978 di Morenga, un romanzo tuttora inedito nel nostro paese dedicato allo sterminio compiuto dai tedeschi in Namibia contro le popolazioni Herero e Nama all’inizio del Novecento: una vicenda che per certi versi annunciava quanto sarebbe accaduto durante il regime di Hitler. Infatti, come ricorda Timm, «molti dei soldati che avevano combattuto in Namibia finirono nei Freikorps, le milizie antisemite e naziste che dopo il 1918 terrorizzavano le città tedesche a caccia di comunisti. Uno dei generali nazisti, Franz von Epp, era un veterano della Namibia». Da questo punto di vista, «l’Africa fu un laboratorio per le atrocità successive dei nazisti. In base alle teorie socialdarwiniste, vi fu una deumanizzazione mostruosa degli africani. I tedeschi finirono per essere totalmente privi di empatia, ammazzavano e stupravano senza remore o rimorsi. Questo odio verso gli africani era motivato anche da un sentimento di totale estraneità».

IN «UN MONDO MIGLIORE» c’è però spazio anche per il ricordo della prospettiva che con la caduta del nazismo si stava aprendo per i tedeschi. Per Timm che all’epoca aveva solo cinque anni si tratta di tornare con la memoria a giornate nelle quali si intrecciavano incertezze e grandi speranze. Uno dei protagonisti del romanzo, Michael Hansen, che nella storia contribuisce anche alla creazione della rete di biblioteche nelle quali la generazione del dopoguerra scoprirà i classici della narrativa americana così a lungo vietati dal regime, sembra assomigliare a quei soldati di cui lo scrittore conserva un vivido ricordo ancora oggi. «Apparivano così diversi da mio padre, con la sua disciplina prussiana e la sua fissazione per l’ordine. Sembravano sempre rilassati, camminavano con le mani in tasca. E poi avevano un odore diverso dai soldati tedeschi. Non sapevano di stantio, ma di fresco, come le gomme da masticare che ci regalavano insieme alle sigarette e alla cioccolata».