Se Napoli non fu ridotta a «fango e cenere», come ordinò il Führer dopo lo sbarco degli Alleati a Salerno, si deve all’insurrezione delle Quattro giornate tra il 27 e il 30 settembre del ’43 nella prima grande città a liberarsi da sola prima ancora che il Cln si organizzasse.

IN 76 ORE di combattimenti sarebbero morti 170 partigiani e 150 cittadini inermi ma dai registri del Cimitero di Poggioreale risulterebbero 562 morti. Comunque fu un evento drammatico ed epico, fondativo di un immaginario e un’identità. A raccontarlo, tra gli altri, Curzio Malaparte nel ’49 e il celebre film del ’62 di Nanni Loy ispirato da un libro del ’56 di Aldo De Jaco.

Da più parti, a partire dagli angloamericani, ne è stata enfatizzata la spontaneità, il carattere pre-politico, focalizzandosi sul protagonismo di «scugnizzi», donne dei Quartieri Spagnoli, «femminielli» di Piazza Carlo III e perfino dei lungodegenti dell’Ospedale degli Incurabili che nascosero le armi nell’obitorio. Certo, Hobsbawm con il concetto di «ribellismo» ha differenziato le sommosse dalle rivoluzioni ma forse tutta quell’enfasi è depistante e non disinteressata.

Lo sottolinea, ottant’anni dopo, Massimo Congiu in Quattro Giornate di Napoli. Le periferie della Resistenza (4 Punte edizioni, pp. 110, euro 15 euro). Storico e giornalista, firma di queste pagine, Congiu ha voluto concentrarsi sul notevole contributo all’insurrezione di tre quartieri orientali – Ponticelli, Barra e San Giovanni a Teduccio – che formano l’attuale sesta municipalità.

SE È VERO che a incendiare la prateria fu la ferocia con cui i nazisti, dopo l’8 settembre, eseguirono fucilazioni, saccheggi, rastrellamenti, rappresaglie, è vero anche che le semplificazioni non aiutano a capire la complessità di una città come Napoli. Solo cinque anni prima, in occasione della visita di Hitler, le autorità fermarono più o meno un migliaio di sospetti antifascisti rivelando un potenziale variegato di oppositori di ogni tipo. Napoli, all’epoca, è la città di Benedetto Croce e di Amadeo Bordiga. E alcuni decenni prima Bakunin era venuto a organizzare la sezione della Prima Internazionale.
Ponticelli, Barra e San Giovanni a Teduccio, a cavallo del secolo, quartieri agricoli divenute zone industriali, erano stati dei laboratori politici e sociali, teatri di scioperi e di proteste contro il carovita animate da un tessuto di forme organizzate di mutuo soccorso sempre più radicalizzato, che il Ventennio non era riuscito a estinguere. Tant’è che già il 26 luglio a Ponticelli fu presa d’assalto la Casa del Fascio e incendiato il Dopolavoro Ferroviario che recava i simboli del regime.

Lo sguardo di Congiu – funzionale anche a un ragionamento sull’oggi – individua la genesi delle Quattro Giornate nella memoria viva di quelle pratiche capace di intercettare la carica di antifascismo «istintivo» che si sprigionava dalla città stremata già dai bombardamenti alleati (furono 105 con 30mila morti).

NEL DOPOGUERRA, Napoli Est è stata la roccaforte del Pci prima di diventare, negli ultimi dieci anni, il quadrante che si è spopolato di più. In mezzo, tutte le mutazioni impresse dal malgoverno e poi dalle dinamiche neoliberiste. E, nella crisi della sinistra, è la camorra a incidere negli assetti urbani e nell’immaginario dei quartieri.