Tutta l’elaborazione filosofica e la parallela riflessione geopolitica che hanno caratterizzato il lungo percorso e le numerose pubblicazioni di Mauro Ceruti di quasi un quarantennio, in questi tempi di pandemia hanno trovato una dimensione esplicitamente politico-progettuale nel libro Abitare la complessità, scritto insieme a Francesco Bellusci (Mimesis, pp. 168, euro 13). Un volume che, non a caso, si accompagna ad alcune prese di posizione sinergiche e solidali coll’ecologia del pensiero esposta nelle encicliche di Francesco: la Laudato si’, cui Ceruti ha dedicato il saggio Sulla stessa barca (Qiqajon, 2020), e la Fratelli tutti, la cui recente edizione è accompagnata, fra gli altri, dal suo commento, intitolato La rotta della fraternità nel tempo della complessità.

E questo dialogo fra il filosofo laico della complessità, discepolo ed erede di Edgar Morin, e il papa dell’ecologia globale d’ispirazione evangelica, non avviene tanto sul piano paradigmatico che certo accomuna lo stile del pensiero di entrambi, ma su quello delle derivazioni più specificamente politiche e propositive della loro riflessione. Se la sinistra avesse ancora la capacità culturale e il coraggio intellettuale di proporre riflessioni e dibattito su grandi progetti di orientamento politico e antropologico per il futuro, come faceva un tempo, non potrebbe non fare riferimento a riflessioni come questa.

IL LIBRO DI CERUTI E BELLUSCI parte dal carattere apocalittico (nella corretta accezione di «rivelatore di ciò che prima era nascosto») della crisi pandemica che viene definita per questo una policrisi, dato che le cause della sua diffusione incontrollabile hanno intrecciato fra loro, in relazioni impensate, fattori diversi di carattere economico-produttivo, ecologico-ambientale, igienico-sanitario, storico-culturale, sociologico-urbanistico, politico-antropologico e psicologico-esistenziale, i quali tutti hanno concorso sia alla genesi che all’espansione «imprevista» del virus.

Così, persino i meno renitenti e incolti fra i negazionisti, hanno dovuto misurarsi con la consapevolezza che i vari livelli di crisi di civiltà che il pianeta attraversa – e cioè la crisi economica, la crisi ambientale, la crisi demografica, la crisi sociale, la crisi sanitaria, la crisi culturale e morale, la crisi della democrazia… – non sono altro che epifenomeni di una smisurata crisi evolutiva, vale a dire della messa in crisi del connubio ormai inestricabile fra umanità e pianeta, fra la civilizzazione umana e la vita della Terra, compresa la vita umana. E tutti sappiamo dai tempi della scuola che in tutte le crisi evolutive ciò che è in gioco è la vita, vuoi di una o più specie, vuoi di uno o più ecosistemi. In una tale crisi, quindi, è in gioco la sopravvivenza della vita umana sul pianeta.

La complessità della crisi, rivelata dalla pandemia, anzitutto pone secondo gli autori un grande problema cognitivo: «difficile anche per gli esperti comprendere la grammatica di tale complessità. Si tende ad agire con una logica di semplificazione, che non consente di considerare le interdipendenze fra i diversi elementi del sistema e le loro possibili evoluzioni.

RISCHIAMO COSÌ di non poter fare previsioni attendibili e predisporre risposte adeguate». In sostanza, il mondo tecnico-scientifico e quello politico-amministrativo, subalterni a visioni tecnocratiche e specialistiche del sapere e dell’agire, tendono a privilegiare il vecchio paradigma della semplificazione, che riduce l’analisi e la ricerca di soluzioni alla linearità di meccanismi lineari di «causa-effetto», mentre non sanno concepire la complessità, accogliendo e lavorando sulle interconnessioni (causate e causanti insieme) fra i fenomeni e ricerca soluzioni aperte di tipo processuale e coevolutivo.

Tutto questo mette sul piatto oggi non solo e non tanto la carenza delle conoscenze e l’insufficienza delle politiche, ma la loro stessa qualità e la loro capacità di progettare una nuova visione della vita, della società e del mondo. E produce, per converso, comportamenti difensivi che portano, da un lato, all’illusione di un recupero conservativo del passato sociale, sanitario, e in genere antropologico, pre-pandemico e, dall’altro lato, alla drammatica incapacità, a tutti i livelli, di sottrarsi alla morsa paralizzante delle antinomie fra salute e lavoro, tra libertà e sicurezza, tra bisogno di socialità e «distanziamento sociale», tra desiderio personale e conseguenze collettive prodotte dalla crisi del Covid-19.

Il libro propone un’analisi correlata di tutte le implicazioni di questa inadeguatezza, ma il punto su cui gli autori decisamente insistono è quello politico della crisi globale della democrazia. Ceruti e Bellusci argomentano una tesi di grande interesse. Il «gran rifiuto della complessità» accomuna le due soluzioni politiche che oggi sembrano dividersi il campo su scala planetaria, da una parte, il neoliberalismo, segnato dalla hybris tecnocratica, e, dall’altra, il populismo, segnato dalla hybris nazionalista, entrambe subalterne e disarmate nei confronti della crisi: «I semplicismi che ispirano le recenti varianti del populismo, del nazional-populismo e del sovranismo, compresa la diversa misura con cui riescono a contagiare l’agenda politica dei partiti tradizionali e storici, sono in parte la risposta simmetrica al semplicismo del «globalismo neoliberista» o della «mondializzazione del liberismo economico».

ENTRAMBI INFATTI, frutto dell’influsso cognitivo, culturale e sociale di un pensiero disgiuntivo e riduttivo della sua complessità, semplificano e svuotano la democrazia rendendola polarizzata e minimalista, e destinandola al governo del capo (autocrazia), o a quello dei competenti (epistocrazia), o a quello dei tecnici (tecnocrazia). Il futuro della democrazia risiede invece nel «concepire e sperimentare nuove sintesi fra unità e diversità, tra saperi e condizioni di vita, tra polis e kosmos», nello scenario mondiale di un’organizzazione, nuova e inedita, del rapporto fra umanità e pianeta. Efficaci e convincenti, su questo, gli spunti del libro.