«La Repubblica islamica non collasserà in tempi brevi e non credo che il sistema sia riformabile. Il movimento riformista ha fallito, ad aver perso la pazienza sono soprattutto i giovani. Le recenti proteste sono state scatenate dalla crisi economica, ma la repressione ha conferito loro una forte connotazione politica. L’opposizione non è sufficientemente organizzata, gli attivisti in esilio non riescono a trovare un denominatore comune che permetta loro di accantonare le differenze».

Inizia così la conversazione con l’attivista iraniana, naturalizzata americana, Azadeh Pourzand. Ricercatrice per i diritti umani e direttrice della Fondazione Siamak Pourzand per la promozione della libertà di espressione e di credo, in questi giorni è in Italia per una serie di incontri organizzati da Amnesty. A Pesaro, stamattina incontrerà gli studenti delle superiori e nel pomeriggio parteciperà a un incontro pubblico presso la sala del Consiglio Comunale. Domani sarà a Reggio Emilia dove, dopo un incontro con gli studenti, alle 18 terrà una conferenza su libertà di espressione e diritti umani in Iran presso l’Istituto Istoreco (Chiostro di San Domenico, in via Dante Alighieri 11).

Trentaquattro anni, Azadeh è figlia di due noti attivisti. La madre è la femminista e avvocata Mehrangiz Kar insignita del Premio donna dell’anno dal Consiglio regionale della Valle d’Aosta. Nel 2000 aveva scontato 52 giorni di carcere per aver partecipato alla conferenza “L’Iran dopo le elezioni” organizzata a Berlino dalla Fondazione Heinrich Böll. Azadeh ricorda di come da bambina avesse accompagnato più volte la madre in tribunale, “senonché prima del suo arresto lei era l’avvocato difensore, mentre nel 2000 sedeva sul banco degli imputati. È stato in quel frangente che ho preso atto delle ingiustizie insite nel sistema giuridico della Repubblica islamica e ho sentito il dovere morale di lottare per i diritti umani”.

“Quando mia madre era rinchiusa in carcere a Teheran non potevo recapitale oggetti taglienti ma nemmeno un cuscino: la comodità non era consentita alle detenute. Se infilavo nella sacca un paio di scarpe, dovevano essere rigorosamente senza lacci. Avevo solo 14 anni, mi soffermavo su questi piccoli dettagli e li trascrivevo su un quaderno perché così voleva mio padre. Quando andammo al tribunale rivoluzionario per assistere al processo, lui nascose nei calzini i ritagli dei giornali internazionali in cui la mamma citata. Andò in bagno, li tirò fuori e li fermò con gli spilli sulla camicia, sotto sul cappotto, in modo che se ci fosse stata la possibilità di avvicinarsi le avrebbe potuto mostrare che non era stata dimenticata. Rischiava, per darle coraggio”.

A quell’epoca, Azadeh aveva quattordici anni. Scrisse un articolo, pubblicato su un quotidiano liberale. Era la primavera di Teheran, il presidente era il riformatore Muhammad Khatami e i giornalisti riuscivano ancora a sfuggire alla scure del censore grazie al ministro della Cultura e della Guida islamica Ataollah Mohajerani, poco dopo costretto a dimettersi perché giudicato troppo permissivo dai conservatori. Rilasciata Mehrangiz, ad essere arrestato fu il marito, Siamak Pourzand: seguito per giorni da agenti in motocicletta, il 29 novembre 2001 fu rapito mentre usciva dall’appartamento della sorella. Le ricerche della famiglia furono inutili. Il 9 marzo, il quotidiano governativo Iran Daily rese noto che sarebbe stato giudicato dal tribunale rivoluzionario: processo a porte chiuse, senza avvocato.

Fu condannato a undici anni di carcere e a 74 frustate. Passò un periodo agli arresti domiciliari, per gravi motivi di salute. È morto il 29 aprile 2011, lanciandosi dal sesto piano del suo appartamento a Teheran. Per Azadeh, “quel gesto è stato il suo modo di trovare la libertà”. Le persecuzioni nei confronti della famiglia sono continuate. Mehrangiz e la figlia si sono trasferite negli Stati Uniti. Oggi, Azadeh risiede a Londra con il marito. Una vita in esilio, lo sguardo rivolto all’Iran.