A dicembre 2013, a Bangkok, si è svolto il terzo congresso del sindacato Building and Wood Workers’ International (Bwi). Per la prima volta hanno partecipato anche gli operai cinesi. Erano in nove, e avevano voglia di condividere con il resto del mondo le loro battaglie. Wang Qungchun è uno di questi. Ha raccontato alla platea come si è trasformato da un semplice lavoratore arrabbiato che organizzava scioperi selvaggi a un attivista che ha imparato la forza della contrattazione collettiva e delle unioni dei lavoratori che condividono le proprie esperienze con quelle di lavoratori di altre fabbriche e altri settori.

È una strada lunga e difficile, ma sono gli operai come lui che, spesso imparando ad usare i nuovi strumenti offerti da applicazioni e social media, sono riusciti a dar vita a una nuova fase del movimento dei lavoratori in Cina. Han Dongfang, direttore dell’ong di Hong Kong China Labour Bulletin, ha spiegato nella stessa occasione come anche solo dieci anni fa la partecipazione di lavoratori cinesi ad un evento internazionale come quello, sarebbe stato impensabile. Ma nella Cina contemporanea i lavoratori cinesi si stanno scrollando di dosso l’atteggiamento delle vittime. Le loro lotte sono ormai consapevoli dell’importanza di far sentire la propria voce al di fuori della propria fabbrica, e della giustezza di veder rispettati i propri diritti.

Questa poi, è da sempre la stagione degli scioperi in Cina. I 300 milioni di lavoratori migranti, pretendono di essere pagati prima del 31 gennaio, quando la maggior parte di loro tornerà nei propri villaggi natali per festeggiare il Capodanno cinese. Molti di loro aspettano il salario da mesi, ma se sono stati fin’ora disposti a pazientare niente li fermerà dal pretendere di tornare nelle aree rurali con un gruzzolo da esibire a parenti e amici. È una questione di mianzi, ovvero d’orgoglio. Passano l’anno a sgobbare, lontano dagli obblighi confuciani di figli e di genitori. Devono dimostrare che questa decisione gli vale un benessere che possono redistribuire nelle famiglie e nei villaggi di provenienza.

La mappa degli scioperi cinesi del China Labour Bullettin, non ha la pretesa di essere esaustiva. Ma è il tentativo di catalogare le singole lotte per cercare di costruire un quadro completo della situazione dei lavoratori cinesi. Negli ultimi due mesi si sono registrati almeno 120 scioperi, per la maggior parte nelle regioni costiere e sud occidentali dove l’industria è – da sempre – più sviluppata. Oltre agli arretrati chiedono aumenti salariali e più sicurezza sul lavoro.

Quest’anno i problemi sono stati molti. I più colpiti sono gli operai del ramo edile, che spesso vedono le loro paghe scomparire in una rete infinita di appalti e subappalti, ma anche i lavoratori del tessile se la vedono male. La domanda occidentale è calata, le aziende madri pagano in ritardo e per le fabbriche l’opzione più semplice per rimanere in piedi è non pagare i dipendenti. Questa almeno è l’analisi di Geoff Crothall, portavoce del Clb. La sua previsione è che per il Capodanno cinese la maggioranza degli operai riceverà solo la metà di quello che gli è dovuto. Stando ai loro dati, infatti, nessuna delle proteste degli ultimi due mesi – la maggioranza delle quali ha coinvolto centinaia di lavoratori – ha avuto successo.

Ma è come la goccia che scava lentamente la roccia. L’aumento costante delle proteste operaie (molto chiaro nel grafico del Clb) ha ottenuto come risultato un aumento dei salari. Nel 2013 le paghe sono cresciuta del dieci per cento rispetto all’anno precedente, e per il 2014 si prevede una percentuale simile se non superiore. E c’è anche da sottolineare che gli stipendi stanno crescendo più del pil, una problematica che va affrontata aumentando la competitività, diminuendo i monopoli e puntando sulla crescita dei consumi interni.

E infatti il governo vede di buon occhio gli aumenti salariali. Si inseriscono perfettamente nello sforzo programmato di traghettare l’economia del paese dall’industria manifatturiera ai servizi. C’è inoltre il problema dell’invecchiamento della popolazione (il passaggio dalla politica del figlio unico alla politica dei due figli non risolverà la situazione a breve), e la volontà di creare un consumo interno in grado di sostenere la crescita economica. Sono in molti a temere che questo significherà che le produzioni a basso costo si sposteranno nelle aree limitrofe del Vietnam e della Cambogia.
Ma anche a questo il Partito tenta di trovare una soluzione. Fa impressione osservare la cartina della Cina su cui sono evidenziate la zone scelte per ampliare gli affari delle aziende esistenti. Ai primi posti ci sono la regione del Sichuan e la megalopoli di Chongqing. Le arie più interessate dalla nuova scommessa cinese: urbanizzare le arie rurali e riportarci quei lavoratori migranti che i dati ci dicono non essere già più il terzo stato ma una nuova classe di consumatori. Quella su cui punta la Nuovissima Cina.