La mobilitazione pre-pandemia contro il governo Duque, la più grande protesta registrata in Colombia in molti decenni, sta riaccendendo i motori.

Così sembrano indicare, dopo le massicce manifestazioni di settembre in seguito all’omicidio di Javier Ordóñez, tanto la «minga» (parola quechua che significa azione collettiva e solidale) promossa contro Duque dal Centro regionale indigeno del Cauca quanto lo sciopero nazionale organizzato ieri dal Comité nacional del paro, costituito dai sindacati e dalle organizzazioni che hanno guidato le proteste iniziate nel novembre dello scorso anno.

Allo sciopero, convocato per denunciare la violenza dilagante nel paese e la drammatica situazione economica e sociale, hanno preso parte, prima di ritornare nei propri territori, anche gli stessi partecipanti alla minga, i quali, dopo aver atteso per tre giorni a Cali che il presidente si degnasse di ascoltare le loro rivendicazioni, hanno trasferito la protesta nella capitale colombiana, percorrendo a piedi e con mezzi di fortuna 500 chilometri.

Neanche a Bogotà, dove hanno ricevuto un ampio sostegno dalla popolazione, gli indigeni sono riusciti a incontrarsi con Duque, ma il loro non è stato comunque un viaggio inutile: davanti a una sedia vuota posta su un palco in Plaza de Bolívar – un rito che sta diventando un’abitudine di fronte alle frequenti defezioni del presidente che «non accetta ultimatum» -, i 7mila mingueros hanno potuto presentare le loro denunce: contro la violenza che affligge in particolare i territori del Cauca – 76 i comuneros assassinati nella regione dall’inizio dell’anno -, contro il saccheggio delle risorse naturali da parte delle imprese, contro le fumigazioni delle piantagioni di foglia di coca, in aperta violazione dell’Accordo di pace firmato con le Farc nel 2016.