Circa un anno fa l’edizione serale del telegiornale nazionale giapponese dava la notizia che nel Parco nazionale di Nikko, a circa 160 chilometri a nord di Tokyo, una sessho-seki («pietra assassina») era stata trovata spaccata a metà, e lo spirito di una volpe a nove code, rimasto intrappolatovi per novecento anni, vagava a piede libero per il paese. Questa notizia ci interessa per diversi motivi. In primis, ci spiega che la storia di una pietra dal passato possa avere conseguenze nel nostro presente, in secondo luogo ci presenta una delle capacità di socializzazione delle pietre, quella di essere presenti in tempi sociali diversi.

OGGI I BIOLOGI CI DICONO CHE GLI ALBERI sono esseri sociali. Sanno contare, imparare e ricordare, curano i propri simili se malati e si avvertono reciprocamente del pericolo (M. Gagliano, 2022). Inoltre, sappiamo che alcuni animali hanno sentimenti, esprimono cultura e comunicano in diversi dialetti (P. Hunter, 2021). Recentemente, un gruppo di ricerca giapponese ha osservato che i funghi non solo comunicano tra loro, ma che sembrano essere particolarmente loquaci durante gli acquazzoni (Y. Fukasawa, D. Akai, M. Ushio, T. Takehi, 2023). Questi sono solo alcuni esempi dello sguardo che alcune discipline iniziano a utilizzare per studiare e capire l’ambiente che ci circonda. Un ambiente affollato di relazioni tra specie, tra soggetti senzienti, tra abitanti di questo pianeta.

GLI ANTROPOLOGI CHE LAVORANO con popolazioni indigene sanno da tempo che, anche se in modalità distinte, molti popoli nativi affermano di relazionarsi, di dialogare, di comunicare con l’ambiente, tutelandone in questo modo anche la biodiversità. Non è un caso che gli hotspot di biodiversità sul nostro pianeta si concentrino proprio dove si trovano ancora popolazioni native (i popoli nativi costituiscono il 5 per cento della popolazione mondiale). Fin qui tutto bene, ma come reagiamo se questi popoli ci dicono che le pietre nascono, si muovono e muoiono? Un famoso antropologo, Alfred Irving Hallowell, lavorando con gli Ojibwa, un popolo di cacciatori di pellicce del Canada, si sentì dire che non tutte le pietre sono vive «ma alcune lo sono» (T. Ingold, 2020).

SE CI SPOSTIAMO A FUTUNA, UN’ISOLA nel Pacifico meridionale, scopriamo che ci sono pietre che viaggiano in modi che ci sorprendono per il loro dinamismo fisico e la loro potenza emotiva. Tuttavia, qual è il nostro primo atteggiamento di fronte a questi racconti? Probabilmente pensiamo a un linguaggio metaforico, il linguaggio dei miti, delle leggende, delle storie di paese. E se provassimo, invece, a «prendere sul serio il pensiero nativo», come suggerisce l’antropologo britannico Tim Ingold? Questo non significa cambiare le proprie credenze o supposizioni riguardo a come funziona il mondo, ma piuttosto accettare una sfida, quella che ci siano diversi modi di dare senso al mondo. Proviamo, allora, a ipotizzare che il significato che affidiamo alle pietre non appartenga solo agli umani; la sfida che propongo è quella di riconoscere la partecipazione delle pietre nelle vicende umane.

QUINDI DI ACCETTARE CHE LE PIETRE abbiano delle necessità, dei desideri e che per realizzarli abbiano bisogno della nostra collaborazione. L’antropologia, come altre discipline, negli ultimi tempi si è resa conto che in molte culture gli esseri umani e le pietre «socializzano», ovvero comunicano e cooperano tra loro con l’ambiente circostante, parliamo infatti di mutualismo e di comunicazione. Lungi dall’essere inerti o stabili, le pietre sono considerate da molte culture come animate, mobili, potenti, capaci di trasformarsi. Le pietre sono la materia prima delle culture, il mezzo di costruzione della cultura materiale e spirituale. In molti luoghi del mondo le rocce e le pietre agiscono, sono protagoniste di storie o esse stesse raccontano storie, crescono, viaggiano, danno alla luce altre pietre.

COME LA PIETRA NERA DELLA MECCA, un elemento centrale nella religione musulmana che fa muovere milioni di fedeli in un pellegrinaggio almeno una volta nella vita. Oppure la famosa dichiarazione di fondazione del cristianesimo, quando Gesù rivolgendosi a Pietro – che significa roccia – gli disse: «Tu sei Pietro, e su questa pietra edificherò la mia chiesa» (Matteo 16, 18). Nella mitologia greca incontriamo la storia di Deucalione che chiese a Zeus di ripopolare la Terra con una nuova generazione di esseri umani, e questi gli ordinò di camminare insieme alla moglie Pirra raccogliendo le pietre che avrebbero trovato e di gettarsele alle spalle; da quelle pietre sarebbero poi nati uomini e donne.

SE CI SPOSTIAMO IN UN TEMPO contemporaneamente lontano e vicino, ossia il tempo del sogno australiano, abbiamo l’esempio dell’Uluru, il più imponente massiccio roccioso dell’outback australiano: gli aborigeni ritengono che ancora oggi mantenga la sua essenza vitale, un potere creativo e generativo. Nel Borneo viene riconosciuto un genere sessuale alle pietre, che possono quindi riprodursi e generarne di nuove. Gli abitanti dell’isola di Tikopia, nel Pacifico, raccontano come nella loro terra la vita sia nata da due pietre, una femmina e un maschio, poste ai lati opposti dell’isola.

COME DIMOSTRANO QUESTI ESEMPI, in tutto il mondo le comunità umane hanno riconosciuto un ruolo a pietre e rocce. Le pietre alle quali mi riferisco in questo contributo sono le rocce così come si trovano in natura o minimamente modificate dalle forze terrestri, che siano agenti atmosferici o esseri umani. Potremmo definirle pietre non completamente addomesticate, vivi lapides («pietre viventi»), come le chiamavano i romani. Fu, infatti, solo nel XIII secolo che il filosofo e scienziato tedesco Alberto Magno confutò l’idea che le pietre possedessero un’anima.

QUINDI ANCHE IN OCCIDENTE, fino a un certo momento – e ancora oggi nella maggior parte delle culture native – si riconosceva che la materia di cui è fatto il pianeta fosse attraversata da vitalità, fosse in possesso di un livello di sensibilità. Vi sono poi persone, animali, piante, rocce o luoghi che sono ancora oggi considerati accumulatori di forza vitale, come serbatoi che mantengono la capacità di vivere in più tempi, quello geologico e quello umano. Le sessho-seki giapponesi sono un esempio.

PENSARE, ALLORA, ALLA SOCIALIZZAZIONE delle pietre non mira a contrapporre gli approcci scientifici occidentali e le tradizioni native, ma vuole ragionare sulla vita e sulle relazioni, prendendo sul serio i discorsi ecologici nativi, che considerano anche le pietre attori dello scorrere della vita biologica. Il dialogo con le pietre consente di ripensare al modo con cui l’essere umano si relaziona alla natura, attraverso rapporti non dicotomici, ma collaborativi. Diventa, così, forse più facile accettare che l’azione delle pietre non provenga solo dagli esseri umani, ma dalla loro presenza negli eventi.

* Insegna Pacific Studies presso l’Università di Torino

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«Dialoghi di Pistoia» per leggere la contemporaneità

L’antropologa ambientale Emanuela Borgnino è una delle autrici del volume «Umani e non Umani. Noi siamo natura», l’ultimo titolo della serie dei libri «Dialoghi di Pistoia», ideata e diretta da Giulia Cogoli e promossa dalla Fondazione Caript. L’antologia, uscita il 6 febbraio per UTET (pp. 128; € 16), raccoglie anche saggi di Marco Aime e Marco Paolini, Guido Barbujani, Irene Borgna, Federico Faloppa e Adriano Favole, Ugo Morelli che riflettono sull’urgenza di ripensare i tradizionali modelli antropocentrici per ritrovare quel tessuto di relazioni che lega l’umanità a tutti gli esseri, viventi e inorganici, che abitano la Terra. Con questo volume sale a 23 il numero di titoli pubblicati nella serie che costituisce uno degli strumenti con i quali i «Dialoghi di Pistoia» forniscono spunti per leggere la contemporaneità, ricalcando e ampliando il percorso di approfondimento culturale intrapreso dal festival. La XV edizione dei Dialoghi di Pistoia quest’anno si svolgerà da venerdì 24 a domenica 26 maggio e avrà come tema «Siamo ciò che mangiamo? Nutrire il corpo e la mente» (dialoghidipistoia.it).