È soprattutto una poesia delle piccole cose quella depositata dal poeta ceco Petr Hruška nella raccolta Volevamo salvarci (Miraggi edizioni, pp. 192, euro 17, traduzione di Elisa Bin). Piccole cose, la cui familiarità conforta il lettore e al contempo lo spiazza nel momento in cui l’oggetto appena osservato, lo strumento appena manipolato, l’animale avvicinato e situazioni di disarmata normalità vengono segnate nel centro, fatte scrocchiare per guardarci dentro e scoprirci al fondo la salvezza. Non una promessa escatologica, né una parabola del buon vivere; piuttosto, una domanda di salvezza, l’urgenza del possibile che preme contro la dittatura dell’attuato.

Gli elementi della realtà vengono descritti nella loro singolarità: lasciati essere ciò che sono e, al contempo, spremuti per pretendere da essi la salvezza di ciò che non ha potuto essere e forse non sarà mai. Una singolarità che ha molto a che fare con la prospettiva dell’io parlante, la quale, certo, scompare umilmente nelle proprie parole, ma conserva in quelle stesse parole i limiti del proprio mondo; un mondo che gli è proprio e che, come nella curiosità infantile, rischia di non essere più quando si chiudono gli occhi o si spegne la luce.

RIECHEGGIANO le parole di Walter Benjamin nell’ultima tesi sul concetto di storia scritta nel 1940, in cui si legge di una piccola porta da cui, in ogni momento, può irrompere la salvezza. Una piccola porta che è quello stesso momento, nella sua sommessa capacità rivelativa. È come se Hruška ci invitasse a non perdere occasione di redimere, oltre alla realtà, anche tutto l’impossibile che essa esclude per potersi fare positività storica.

È proprio da ciò che è sempre sotto i nostri occhi e perciò, trascurato, va ripercorso minuziosamente; è proprio da ciò su cui invece non poggiamo mai i nostri occhi e rimane angolo recondito ed emarginato; è proprio da ciò cui non solo si è tolta voce, ma si è impedito del tutto di accadere: è da qui che può sprigionarsi una voce salvifica. O perlomeno un modo risolutivo di porre le inestinguibili domande.

SOTTO LA PENNA di Hruška risuona l’attrito cui la realtà costringe ogni vita facendo sempre segno a qualcosa di ulteriore. La cifra fondamentale di questi versi è l’irrequietezza, che striscia nel quotidiano e lo proietta su un fondo inaudito, dal quale soltanto esso può caricarsi di significato.

Da tale prospettiva, l’autore si interroga su cosa significhi la solitudine, sul tenore dei rapporti, sulle possibilità di comunicare davvero, sul tempo, l’invecchiamento e la morte, la modernità e la sua disumanità.

Disarmante per la propria profondità, la prefazione in prosa dell’autore, che così si chiude: «Quel cercare di agire, quei per-ora, zattere provvisorie e fuochi pallidi quotidiani, quel non accorgersi della propria disgrazia e tuttavia quell’abbottonarsi la camicia al collo: tutto questo non smette mai di incantarmi». Il minuscolo e familiare, l’illusione e la disillusione; ma soprattutto l’incanto che tutto ciò sa suscitare all’occhio del poeta.