Ha una ambientazione e un conio decisamente contemporanei l’opera prima di Gabriele Sassone Uccidi l’unicorno (Il Saggiatore. pp. 224, euro 19), una narrazione che dura una lunga notte di riflessioni, pensieri, flashback, digressioni e sconfinamenti di un professore quarantenne, l’ondivago io narrante, che all’improvviso deve preparare per un network artistico una lezione sul tema «L’arte all’epoca dei social media», sostituendo un convegnista straniero che ha dato improvvisamente forfait. È già notte quando riceve la telefonata dalla project manager, subito si mette al lavoro, l’indomani una platea di 250 studenti ascolteranno la sua lezione, evento che lo terrorizza, la deve scrivere subito, prima che venga il mattino, mentre la moglie e il figlio piccolo dormono.

L’ANTEFATTO, il clima notturno e ansiogeno, creano subito nel romanzo una tensione elucubratoria e sognante, le slide in preparazione partono da assunti concreti, oltre che da quelli teorici, il lavoro dell’artista non è tanto l’oggetto del suo genio, quanto la capacità di sopravvivere alle avversità dell’epoca e della vita materiale, resistere a una precarietà divorante, quella di persone che «agiscono in uno stato emotivo di emergenza. Sopravvivono con la creatività». Questa la condizione dell’artista contemporaneo, sia esso un pittore, uno scrittore, un cineasta o un autore di graphic novel, «l’impatto dell’economia sulla carriera di un artista emergente è un fattore devastante, forse il peggiore. Un maremoto». Per confutare tutto questo, per rispecchiarlo in altre epoche e momenti della storia, partendo di volta in volta da ragionamenti su cosa è l’arte e cosa essere artisti, nel rapporto con l’estetica ma anche con le istituzioni e il potere, Sassone scomoda Vincent Van Gogh, oppure Luigi Di Ruscio, il poeta degli ultimi, operaio sulle trafilatrici alla fabbrica di chiodi di Oslo, lo scrittore anarchico Luciano Bianciardi, l’olivettiano Paolo Volponi, con un obiettivo davvero «prestigioso», che è la sotterranea ma decisa cifra politica del libro, «cogliere il punto di vista dei dominati, di chi sta in basso alla catena alimentare». Addirittura, ai nuovi artisti che incontra nella vita professionale, che conosce, presta i nomi di battesimo di questi Don Chisciotte antenati, che oggi vivono la nuova Vita agra.

LA NARRAZIONE AVANZA ora dopo ora per strane aggregazioni, associazioni, a quella tout court del romanzo, la storia al presente, si innesta una riflessione artistico-riflessiva e una vera e propria storia di formazione intellettuale, che cronologicamente comincia con l’incipit del libro quando il protagonista è svegliato al mattino dai passi del padre operaio «che imita la fanfara dei bersaglieri» mentre lui fa finta di dormire, spia di una appartenenza di classe.
La scrittura ritmata e vitale di Sassone alterna la cupa descrittività degli interni al presente, agli ambienti mondani dei luoghi artistici, esilaranti vernissage, improbabili incontri con critici erotomani, galleristi isterici, a quella saggistica, più distesa, dove prende in esame alcune icone dell’arte contemporanea come il dripping di Pollock o le 700 querce di Beuys. Ma essenzialmente questo è un romanzo sul lavoro immateriale oggi, le sue perversioni, un’opera aperta dove il neoliberismo, cioè il mercato, controlla anche la creatività riducendola in merce. «L’artista a tutti i livelli, emergente o affermato, oggi è un soggetto in produzione perenne, un soggetto che non ha mai lavorato in fabbrica poiché la fabbrica l’ha costruita dentro di sé», scrive l’autore. Tutto il contrario di quello che pensava Marcel Duchamp, il quale nel 1967 affermò: «Si fa pittura perché si vuole essere, per così dire, liberi. Non si vuole andare tutte le mattine in ufficio». Oggi, sta a dirci questo originale romanzo, si può diventare artista o uccidendo l’unicorno, «la distruzione dell’innocenza e della purezza», oppure resistere come il poeta Luigi Di Ruscio nelle nevi nere di Oslo, ostinato per mezzo secolo, che per salvarsi l’anima ribelle non ha mai ceduto «alla morsa del fallimento».