Jean Crotti, “Autoportrait”, ca. 1935, collezione privata

 

Jean Crotti, “Portrait sur mesure” di Marcel Duchamp, 1915 (distrutto o perduto), foto d’epoca, New York, MoMA

 

Destinatario di una celebre lettera in cui Marcel Duchamp, suo cognato, gli spiega lucidamente perché non debba angustiarsi del suo insuccesso, Jean Crotti resta forse, fra i ‘maggiori’ estensivamente intesi, la figura più negletta delle avanguardie storiche, e persino di Dada, suo mondo di riferimento. Nel 1915, a New York, fu folgorato appunto da Duchamp, già conosciuto a Parigi, e con il quale decise di condividere lo studio nel Lincoln Arcade. Questa la sua dichiarazione, a sancire l’improvvisa sterzata dopo una fase di cubismo orfico: «1914 Morte per avvelenamento cubico / del Jean Crotti n. 1 / 1915 Nascita del Jean Crotti n. 2 / per autoprocreazione e selfgenerazione / e / senza cordone ombelicale». Si impregna dell’idea duchampiana che il creatore di forme debba sottrarsi alla catena della ripetizione, alla fatalità di una poetica: idea che farà di lui, vocato a rimanere nel campo della pittura e del quadro, un incessante rinnovatore di se stesso, un giocoliere di stili, e insieme uno strutturale dubbioso. Di conseguenza, un ‘fallito’. Nessuna rendita di posizione: Francis M. Naumann, il migliore interprete contemporaneo di Crotti insieme a Jean-Hubert Martin, scrive, dei suoi dipinti meccanomorfi del 1920-’21, «fra le astrazioni geometriche più sofisticate ed eleganti che un artista abbia prodotto nel XX secolo»; e aggiunge: vi poteva costruire sopra una carriera, diventare «uno dei più celebri astrattisti della sua generazione».
La famiglia cattolicissima
Jean Crotti era nato nel 1878 a Bulle, linda cittadina della Svizzera francese, distretto della Gruyère, dove mi sono recato sulle tracce della sua infanzia con il risultato di… una divina fonduta. La famiglia, di origine ticinese, era cattolicissima, un’impronta che giustifica, nell’opera dell’artista, la Primauté du Spirituel, sottotitolo della monografia dedicatagli nel 1959, un anno dopo la morte, da Waldemar George, unico critico del passato che abbia creduto in lui. Fra le note biografiche di quel libro si trova scritto che Crotti ereditò dal padre la «violenza» e dalla madre la «dolcezza» e «un’inesauribile immaginazione».
1887: a nove anni Jean si trasferisce con la famiglia a Friburgo (la Friburgo svizzera), dove, nel 1891, lo traumatizza la morte dell’adorata sorella Marie. L’altro fratello, André, maggiore di cinque anni, destinato a eccellere in chirurgia con una ‘posizione’ oltreoceano (Columbus, Ohio), sarà decisivo nel sostenere finanziariamente l’artista agli esordi. 1901: Crotti, dopo una deludente esperienza di formazione a Monaco di Baviera, evade da Friburgo alla volta di Parigi. Entra, come di rito, all’Académie Julian, dove gli insegnamenti stereotipati di Fleury e Lefebvre lo sconfortano.
Già questa reazione, in un provinciale di 23 anni, segnala l’autonomia di giudizio, l’esigenza imperativa di elaborare in proprio, che saranno i tratti qualificanti del suo percorso. Fra il 1905 e il 1906 la prossimità a Montmartre con gli artisti che, all’inizio del decennio successivo, infiammeranno la scena dell’arte sotto il segno del cubismo «da Salon» e della Section d’Or, lo sollecita: abita in rue Caulaincourt, a pochi numeri civici da Jacques Villon, nel cui atelier, che ospita di continuo riunioni, Crotti conosce sicuramente Duchamp, di Villon fratello minore. E insieme a Duchamp, Gleizes, Metzinger, La Fresnaye, Kupka… Non sono ancora gli artisti che saranno, e Crotti, come loro ma più in solitaria, meditativo, si esercita sopra i migliori lasciti della fin de siècle, con una predilezione per il pointillisme: che però male intende, riducendo la superficie cromo-luminarista a una specie di texture su cui ‘stampare’ sagome di donne un po’ marziane, il cui collo allungato tornerà negli ‘idoli’ femminili dei primi anni venti. C’è piuttosto un senso sofisticato della linea, di stampo nouveau, che permarrà come riserva nell’intero suo iter, e che conduce subito, trascorsa quell’incertezza, a piccoli capi d’opera fatti di niente, profilature di ragazze con lirici ‘risparmi’ di colore.
I dîners dei cubisti di Passy
Nel 1911, l’austero Paysage synthétique, raffinato gioco dialettico tra effetti di profondità e di superficie, allinea Crotti al fronte più avanzato della ricerca, in una direzione che, tre anni dopo, si preciserà in senso orfico. Lo svizzero partecipa più attivamente alla vita sociale dell’avanguardia (i dîners dei cubisti eterodossi di Passy), ma forse non abbastanza, se è assente alla mostra fatidica della Section d’Or (1912) e quasi lo ignora, nelle sue cronache d’arte, Apollinaire, di cui pure fu amico al punto da vegliarlo, nel 1916, dopo la trapanazione del cranio.
Gli artisti di riferimento creativo sono, in particolare, Delaunay e Kupka, con cui Crotti condivide la sensibilità musicale in forme curve. Ne testimoniano nel 1914 i Tableaux éventails, serie di femmes altamente stilizzate che occhieggiano da traslucide sovrapposizioni ‘ruotanti’ di azzurri velami, un modulo per i futuri dipinti cosmici. Infatti proprio ora l’artista mette a punto il suo sistema visuale, che non sarà distrutto, ma concettualmente arricchito, dalla «nascita del Jean Crotti n. 2», a New York, nel 1915.
Qui il sodalizio con Duchamp determina una scossa di conoscenza: li vediamo, insieme, rovistare in una chincagleria tra la Columbus Avenue e la 60th Streeet, e trarne fuori la «banalissima pala neve» che diventa il primo ready-made americano di Marcel. Un altro ready-made darà colore alla relazione fra i due, il regalo di nozze spedito a Jean e a sua sorella Suzanne da Marcel, che nel frattempo ha intrattenuto un’amicizia amorosa con Yvonne Chastel, ex moglie di Crotti: è l’aprile del 1919, Duchamp soggiorna, sospensivamente, a Buenos Aires; il ready-made, da lui definito «infelice», consiste in un manuale di geometria che i due novelli sposi dovranno appendere sul balcone del loro appartamento parigino di rue de la Condamine, il vento a «scegliere lui stesso i problemi, sfogliare le pagine e stracciarle». Duchamp e Crotti avevano una vaga somiglianza, che giustificherebbe, secondo Arturo Schwarz, l’amore di Suzanne per il secondo al posto del primo, insieme al fatto che Jean fosse stato messaggero fra Marcel e la sorella durante la guerra. Duchamp non si è curato della lettura alchemico-incestuosa di Schwarz.
Il momento newyorkese di Crotti è contrassegnato da alcuni sublimi tentativi polimaterici, fra cui: il Portrait sur mesure di Duchamp, capolavoro di bêtise in fili di piombo e di argento, gli occhi di agata, che anticipa i mobiles di Calder; Clown; Les forces mécaniques de l’amour en mouvement. Questi ultimi due sono – di nuovo nel segno di Duchamp – pittura su vetro. Nella spersonalizzazione del processo creativo, che prevede anche e soprattutto il ricorso al disegno «meccanico», Crotti non aderisce fino in fondo al ‘giansenismo’ di Marcel: trova una sponda, invece, nelle modalità più aperte e ‘calde’ di Picabia, che, già incrociato a Parigi, conosce davvero, diventandogli amico, a New York.
A parte l’ascendente meccanomorfo, che troverà piena realizzazione nei lirici congegni grafici, quasi tutti gouaches, del successivo momento tabu, il rapporto con Picabia – colui che, freneticamente, tirava le fila di Dada fra New York, Parigi, Zurigo e Barcellona – dice qualcosa sulla posizione di Crotti all’interno del movimento. Febbraio 1919: per la copertina della rivista (di sua paternità) «391» Picabia disegna una «construction moléculaires» dei componenti di Dada: il nome di Crotti, al centro in diagonale, è fra i più visibili. Ma se è vero che egli trovò in Dada il sostegno sociale, o antisociale, a lui necessario in quel momento, lo stimolo di supporto per il suo nuovo io «vagabondo» – come si definisce in una dichiarazione del 1934 pubblicata post-mortem –, non aderì alla natura nichilista e distruttiva di quell’avanguardia, che sembrava negare in partenza la possibilità dello «spirituale».
TABU, apparizione a Vienna
Perché, pur nel sovvertimento della condizione rinnovata, Crotti non perde di vista quel Dio che aveva improntato la sua infanzia cattolica, e che non smette di accompagnarlo, pur trasformato in entità ‘personale’, non mediata dal culto di confessione, nella ricerca artistica. Allo stesso tempo, come dirà nel 1957, un anno prima della morte, Dada fu per lui «una vaccinazione contro il virus del conformismo», la base che gli permise, proprio, «di cercare Dio attraverso gli Universi» e di realizzare le sue «ricerche cosmiche». A differenza di Hugo Ball, anch’egli di forti radici cattoliche, Crotti non tornò al Divino dopo l’esperienza dada: realizzò una compenetrazione, abbastanza sorprendente, di due sfere antitetiche.
«TABU je suis sûrement à présent 22 heures 12 février 1921 Vienne Autriche dans trou de rue noir. Apparition lumineuse»: un Pascal dada? Nella poesia Révélation, pubblicata nel 1941, Crotti riferisce la circostanza metafisica che gli aveva suggerito la fondazione di Tabu, questa specie di costola di Dada, unici rappresentanti lui e sua moglie Suzanne. Nell’aprile ’21, alla galerie Montaigne, i due espongono per la prima volta i dipinti relativi, e André Salmon, che firma la prefazione in catalogo, tiene a distinguere Crotti dai suoi camarades dadaisti: scrivendo della sua «purezza», sottolinea la padronanza dei metodi tradizionali; egli si vuole, afferma, come il primo restauratore di un’arte religiosa.
Il «mistero» sottinteso da Tabu, «ce qui ne se peu voir / ce qui ne se peu toucher», trova subito un’approssimazione formale nei dipinti cosmici, 1921-’22: sfere o sezioni sferiche sovrapposte a realizzare, su campiture di colore piatto, profondo, una grafica danza interstellare. Crotti riattualizza la lezione orfica in «un’opera chimerica che impregna – parole di Waldemar George – la trasparenza pallida di una notte boreale». Jean deve essersi reso conto della verità senza scarti rappresentata per lui da queste opere, se negli ultimi anni di vita, 1955-’58, ne fornirà una nuova versione, meno glaciale, più materica e disaggregata: luccicanti esplosioni planetarie, persino viste dalla finestra: l’Inizio; un tu per tu con la vita e la morte, con gli Universi e il Creatore, di sapore testamentario.
Nel 1928 era finita l’amicizia con Picabia. Da quel memoir abbastanza esilarante in cui Lydie Fischer Sarazin-Levassor, prima, improbabile moglie di Duchamp, racconta il suo «scacco matrimoniale» del 1927, vediamo come Crotti, dopo essersi legato a Suzanne, avesse fatto corpo, via via, con Villon, che dei Duchamp era il maggiore, e del resto, rispetto a Marcel, a lui quasi coetaneo. Sarebbe interessante una lettura comparata degli sviluppi di Crotti e di Villon, del dare e avere, nel lungo periodo interbellico vissuto da entrambi nel più toccante isolamento. Ma qui interessa, sulla testimonianza della Sarazin, che tutti e due si mostrassero oltremodo allergici, al contrario di Marcel, dinanzi all’istrionismo pittorico di Picabia, il Picabia della svolta neo-figurativa, descritto da Crotti «come una specie di arrivista che cerca di vendersi al meglio».
Scorrendo il catalogue raisonné dell’opera dipinta, pubblicato nel 2007 da Jean Carlo Bertoli (5 Continents), si è sorpresi di come, dopo la stagione dada, la produzione di Crotti esploda in più direzioni, alle volte coesistenti stagionalmente: un ricercare che ora recupera schemi precedenti ora si avventura nell’ulteriore. Torna a confrontarsi con il cubismo, soprammettendo piani trasparenti, scheggiati come dopo la rottura di una vetrata, o ricorrendo a moduli classicamente prismatici. È tentato dal neoplasticismo, ma recede. Dalla metà dei Trenta, per almeno dieci anni, non manca una produzione più pittoricista, affidata a un fittissimo graffiato che vibra nei colori.
Le dame dal collo lungo, i Doubles
Quel che qualifica davvero il Crotti n. 3 è, a partire dal ciclo neomanierista, ieratico, delle dame dal collo lungo, che non possono non richiamare Modigliani, un’ossessionante ricerca e replicazione di figure primigenie: totem che si accampano con maestà iconica o grottesca brutalità al centro di assetti formali ora semplici ora composti. Iperstilizzato: ma non si deve credere che egli perda il contatto con le fattezze del reale, «non disconosce né lo spirito d’attenzione né la memoria pittoresque di cui parlava Lecocq de Boisbaudran», scrive Waldemar George, che vide nei suoi autoritratti «delle confessioni, delle pièces d’identità e dei processi verbali».
L’indagine sui corrispettivi visuali del «mistero» trovò un’impennata nella serie anni venti dei Doubles, in cui la figura si sdoppia nel suo spettro, nella sua impronta ancestrale, che è l’anima. Il desiderio di penetrare nel formarsi dell’immagine, sfera che gli indica la potenza del divino, è certo all’origine della febbre sperimentale scaturita, all’inizio del 1935, da una casuale circostanza, ritrovarsi fra le mani il caleidoscopio della sua infanzia. Lunghe investigazioni su Formes et Couleurs en Mouvement, come titola una proiezione all’Exposition des Arts et Techniques del 1937 in cui postula l’idea di un cinema astratto. Torna a manifestarsi l’antico pallino del vetro, non più a scopo duchmpiano, anti-retinico, ma come nuova possibilità espressiva di tradizione. Ne sortiranno i Gemmaux, secondo la tecnica da lui brevettata nel 1939: su una lastra di vetro vengono fatte interagire, tramite un legante che ha la stessa funzione dell’antica piombatura, innumerevoli particelle di cristallo colorato, a comporre soggetti di vario tipo. Formicolio luminoso, splendore: per Waldemar George, niente da invidiare ai rosoni di Chartres. È l’unico, indiscusso successo di Crotti, tanto che nel dopoguerra Picasso, amico di vecchia data, e poi Matisse, Rouault e Braque, gli chiederanno di tradurre in vetro alcune delle proprie opere.
Difficile, l’arte di Crotti: ermetica, insoddisfatta, rifiuta la scorciatoia seduisante e si fa persino urticante; non trova il proprio sigillo, la forma compiuta, se non forse alla fine, con le nuove cosmogonie. Resta sempre, in spirito, dadaista: e questo la tiene ai margini, quando le istanze dell’avanguardia si sono ormai assestate, perlopiù, in una teoria di griffes. Perché tanta incomprensione? chiede Crotti, sconsolato, a Duchamp: è il 1952. La risposta terremota l’asse degli argomenti, contro la frustrazione: «Gli artisti di tutti i tempi… la lotteria cieca ne fa emergere alcuni e ne affonda altri… non vale la pena occuparsi né dei vincitori né dei vinti… l’unica salvezza sta in una forma di esoterismo. Invece da sessant’anni assistiamo all’esposizione pubblica dei nostri coglioni e di tutte le nostre fregole… Fai meno autoanalisi e lavora con piacere, senza curarti delle opinioni, la tua e quelle degli altri».
E così deve aver fatto, se in una lettera scritta a Waldemar George qualche tempo prima della morte, e a lui consegnata da Suzanne solo dopo, parla delle ultime «passeggiate interplanetarie» come del suo periodo più «sfavillante»: il «corpo fisico» si è liberato di un’«anima tirannica» – «riconoscibile in tutta la mia opera» – per accedere alla visione «dei più bei paesaggi celesti». Tuttavia egli, «cosciente dell’impossibilità di realizzare plasticamente» queste «immense bellezze», ha ricevuto dall’anima l’ordine del suicidio, che le permettesse di ricongiungersi agli «Universi senza fine»: «A partire da questo momento ho goduto di alcuni giorni, i più tranquilli della mia vita. Avevo giocato il mio ruolo…».