Iya Kiva è una giovane poetessa ucraina costretta ad abbandonare nel 2014 la sua città natale, Donec’k, a seguito dello scoppio della guerra nel Donbass. Dopo aver vissuto a Kyiv, risiede oggi a Leopoli, dove è attiva come volontaria. Bilingue, traduttrice e giornalista freelance, Kiva ha pubblicato due sillogi, Più lontano dal Paradiso (2018) e La prima pagina dell’inverno (2019). Alcuni suoi testi – caratterizzati da «una spietata analisi degli aspetti più dolorosi della realtà visibile e invisibile e delle conseguenze della guerra sul singolo e sulla collettività» – sono compresi nella folta antologia Poeti d’Ucraina (a cura di Alessandro Achilli e Yaryna Grusha Possamai, «Lo Specchio» Mondadori, pp. 264, euro 20) che offre un «panorama testuale ampio, dagli anni Sessanta al maggio 2022» e lascia intravedere il côté «profondamente umano, concreto, sanguigno della scrittura poetica».

Può parlarci del suo lavoro letterario in tempo di guerra?
Oggi è difficile parlare di letteratura perché, come si vede, nell’arte della persuasione la guerra le è superiore. La guerra sa come convincere senza parole, là dove le parole devono ancora essere cercate, ed è una questione aperta se mai si troveranno. Nelle prime settimane dopo l’invasione russa su vasta scala mi sembrava che la scrittura, intesa come opportunità di interagire con il mondo, fosse finita per me. Le parole apparivano come un’appendice in più rispetto alla realtà, un’appendice in fiamme che doveva semplicemente essere ritagliata e gettata via. Ma poco dopo, quando io, come tanti ucraini, ho iniziato ad avere problemi di concentrazione, memoria e capacità di pensare chiaramente, ho capito che è possibile percepire ora la poesia come un modo di fissare non solo la realtà, ma anche me stessa in questa realtà.

Dopotutto, noi ucraini – al pari della nostra storia – stiamo cambiando così rapidamente oggi che la letteratura ci restituisce la capacità di fermare il tempo per vivere al meglio alcuni momenti. Ugualmente a prima dell’invasione russa su vasta scala, non scrivo molto. Le parole devono avere un peso per me: specialmente quando, a causa della guerra, i significati di esse si assottigliano, scivolano via dalle mani, come ciottoli di mare. Quindi, questa lentezza è adesso anche ricerca di un linguaggio che corrisponda alla nuova esperienza di guerra in piena regola o, meglio, alle esperienze assolutamente nuove e assai diverse di viverla. Ed è un compito arduo. Perché le parole sono diventate molto letterali. Dal 2014 il vocabolo «guerra» non è più usato per noi in senso figurato, e dopo il 24 febbraio 2022 ancor di più. E, d’altra parte, anche l’«io ho paura» pronunciato oggi a Kharkiv, Mariupol, Kyiv o Leopoli corrisponde a una «paura» e, persino, a un «io» diversi ogni volta.
La differenza tra queste «paure» non è così facile da cogliere e da articolare. In realtà, la semplificazione delle parole e, allo stesso tempo, l’incredibile complicazione dei loro significati sono ciò a cui si pensa ora tenendo in considerazione la possibilità o l’impossibilità di scrivere.

Le sue poesie toccano il tema dei «rifugiati interni». Ne scrisse anche Seamus Heaney, in «Esposizione» («North», 1975), in merito ai conflitti nordirlandesi. C’è qualche consonanza?
Vedo alcune cose in comune tra quel testo di Heaney e i miei, perché l’esilio forzato comporta sempre un momento di ammissione della propria impotenza davanti alle circostanze, davanti alla storia, alla somma delle decisioni e azioni, che sono molto più complesse della capacità di un individuo di influenzare la propria vita e la sua traiettoria. Nella lirica di Heaney c’è il tema della poesia come potere, come opportunità di opporsi a qualcosa nel mondo. Nondimeno, se Heaney tematizza tale domanda sul ruolo della poesia, io parto invece dalla constatazione che le parole sono l’unica cosa da fare là dove non si riesce a fare nient’altro. Se si può costringere a lasciare la propria terra a causa di un’aggressione militare, è più difficile costringere una persona a rimanere in silenzio. Le parole possono essere portate via soltanto insieme alla propria vita. In ogni caso, nei testi in qualche modo legati all’esperienza dell’emigrazione interna, ho cercato di mettere in rilievo il fatto stesso dell’esistenza di tale realtà. Perché, fino al 2022, la guerra aveva un carattere locale: molte persone non la vedevano, non penetrava nei loro pensieri nemmeno qui in Ucraina. Avevo intenzione di dire a me stessa e ai tanti altri profughi interni ucraini: «Guardate, ci è successa una grave tragedia, non potremo mai più vivere come prima, non avremo mai più il senso di una casa. Non riuscite a vedere?».

Nella lirica «Let’s Go» fa cenno a una «Kyiv dell’anteguerra». Che ricordi ha di quel periodo?
In questa poesia scrivo della dolorosa esperienza del trasferimento forzato da Donec’k a Kyiv nel 2014. La consapevolezza che c’è una guerra nel tuo appezzamento di terra natale, e che non è affatto sentita come tale a Kyiv, ti fa crollare continuamente il terreno sotto i piedi. A quel tempo, gli attacchi di panico mi capitavano abbastanza spesso a causa del disorientamento nello spazio, dell’incapacità non solo di capire dove sei, ma anche perché e cosa sta succedendo in generale. È una poesia legata all’accresciuto senso di alienazione e di esilio. Pertanto, la mappa prebellica di Kyiv che appare in questo testo è un po’ autoironica. Poiché la mappa di Kyiv non è cambiata formalmente dopo il 2014, è stata la mappa dell’Ucraina a modificarsi: su di essa sono apparsi la Crimea annessa e i territori temporaneamente occupati delle regioni di Donec’k e Luhans’k; è cambiata la mia città natale, che è stata stravolta da occupazione e guerra. Il tema prebellico, dunque, è quello di un’altra Kyiv, che conoscevo da turista, ma in cui non dovevo cercare alloggio, tazze e cucchiai, vestiti invernali e biancheria, una Kyiv in cui non dovevo iniziare una vita da zero all’età di trent’anni, non avendo né amici né conoscenti. Una certa mappa «interiore» di quella Kyiv prebellica, al contrario della mappa che esteriormente non è cambiata, è diventata nel 2014 all’improvviso vecchia e inutilizzabile.

Cosa significa per lei scrivere in ucraino e in russo?
Dopo il 24 febbraio non posso più scrivere in russo. Quando cerco di spiegare il motivo, utilizzo l’espressione «la mia lingua non gira», ossia il mio stesso pensiero non riesce a operare liberamente nella lingua russa, intesa come linguaggio della poesia. Posso affermare che l’invasione militare russa su vasta scala ha sradicato in me la capacità di riflettere e scrivere in russo – mia lingua madre e lingua di gran parte della mia vita. Può sembrare paradossale, ma il 24 febbraio i russi hanno ucciso la mia lingua russa. Prima di allora, spiegavo la mia scrittura in due idiomi attraverso la metafora di un lavoro con due mani. Sono ambidestra. Questo passaggio da una mano all’altra è abbastanza naturale per me, così come lo è il bilinguismo: andavo a scuola nel periodo in cui fu proclamata l’indipendenza dell’Ucraina. Ecco perché ho percepito la scrittura in ucraino e in russo come un lavoro a due mani. E anche se dopo il 2014 la lingua russa è diventata un problema interiore, non potevo ancora rinunciarvi, perché avrebbe significato amputare una mano buona. Ebbene, il 24 febbraio 2022, quella mano è stata amputata dai missili – non scrivo più in russo.

Lei è anche giornalista. In che modo questa attività differisce da quella poetica nel raccontare la guerra?
La mia attività giornalistica è attualmente sospesa, poiché la guerra mi costringe a cambiare mestiere e a concentrarmi sul minimo delle mansioni che posso svolgere ora, che sono la letteratura e il volontariato civile. Tuttavia, posso rispondere alla domanda. Un pezzo giornalistico in una certa misura ti esclude dalla narrazione come soggetto valutativo, perché il tuo compito è mostrare l’altro come se parlasse da solo. Ogni giornalista è una specie di regista che permette a una tale persona di esprimersi, ma non interpreta il ruolo al posto di questa persona, non inventa battute per essa, almeno non per intero. Mentre in letteratura tutte le parole sono parole dell’autore.
Anche in prosa, che di solito si occupa di personaggi. Se facciamo riferimento nello specifico alla storia della guerra, allora la differenza è che la poesia (e comunque io sono poeta prima di tutto) risponde alla domanda «come stiamo vivendo questi tempi?», cioè restituisce alle persone la capacità sentire, parlare delle proprie emozioni, cercare le parole esatte per loro. Mentre il giornalismo risponde alla domanda «cosa stiamo vivendo ora?», perché durante una guerra la realtà cambia con una tale frequenza e velocità che è impossibile da comprendere.
La guerra sembra rendere l’ampiezza della realtà molto più grande di quanto sapevamo in precedenza. Pertanto, i giornalisti di guerra lavorano principalmente come raccoglitori di prove e archivisti del tempo. La poesia, invece, cerca di cogliere l’attimo nella sua pienezza emotiva, rendendosi conto che domani può accadere un evento, un altro atto di genocidio che può togliere la capacità stessa di parlare.