Quarantacinque anni. Dal 1951 al 1996. Un arco di tempo, il secondo cinquantennio del Novecento, ove il succedersi degli avvenimenti muta profondamente il mondo nel quale si riconosceva la prima metà del secolo. Vergate nel corso di quei quarantacinque anni, leggiamo ora le Pagine di diario di Michele Rago (1913-2008) che, per la cura di Elena Riccio, pubblica Inschibboleth Edizioni.

Di Michele Rago questa rubrica ha avuto modo di occuparsi nella ferma convinzione del valore della sua opera di critico e di studioso. Mi limito a richiamarne gli esordi accennando all’attività di Rago prima del 1951. Essa prende avvio nel 1943 con la cura, per la collana ‘Universale’ diretta per Einaudi da Carlo Muscetta, di Della tirannide di Vittorio Alfieri e del Socrate immaginario di Ferdinando Galiani. Partecipe del sodalizio che lo lega, con Franco Fortini, Albe Steiner, Franco Calamandrei, Vito Pandolfi ed altri, a Elio Vittorini collabora, tra il 1945 e il 1947, a «Il Politecnico» dove, tra l’altro, pubblica uno (fra i primi e memorabile) scritto su Antonio Gramsci.

Nel 1951 Bompiani manda alle stampe Romanzi francesi dei secoli XVII e XVIII che Rago, nell’accurata cernita che ne fa e nelle finissime annotazioni critiche che introducono i testi antologizzati, invita il lettore a prestare una speciale attenzione a «l’indagine che i romanzieri svolsero sui rapporti tra l’uomo e la donna», non mancando di avvertire che «qui sfiorisce la vecchia morale e con essa la vecchia concezione della donna. A differenza degli altri paesi, la donna acquista qui il diritto di una inconsueta libertà».

Ho dato un rapido, approssimativo e incompleto conto dei contributi di Rago prima del 1951, la data alla quale si aprono le Pagine di diario. Aggiungo soltanto che gli anni Cinquanta di Rago saranno per lo più trascorsi a Parigi, inviato de «l’Unità», dove stringerà rapporti che resteranno stabili con filosofi e scrittori, da Jean Paul Sartre a Simone de Beauvoir, da Lucien Goldmann a Marguerite Duras. E allo studio della letteratura francese Rago dedicherà gli anni della docenza universitaria.

Vengo dunque a Pagine di diario. 1951-1996: una distesa di anni misurata nella scansione di un ridotto numero di date. Dico le date alle quali, come è proprio dei diari, volta a volta si stende una notazione, si compone una meditazione, si fissa uno spunto narrativo da sviluppare o si redige il resoconto d’una discussione (come, lungo venti animate pagine, con mano sapiente di scrittore, fa qui Rago nel dar conto de «Il gran dibattito» sul Rapporto segreto di Chruščëv che si svolge nel Consiglio nazionale del Pci tra il 3 e il 7 aprile del 1956).

Questi spazi bianchi tra una data e l’altra (tra 1956 e 1961; o tra 1978 e 1991) tuttavia, non compromettono in alcun modo quella che definiamo l’integrità del libro e, tanto meno, non ne sfigurano l’andamento diaristico. Ché quella del diario è prima di tutto una forma letteraria che consapevolmente l’autore persegue ed alla quale magistralmente si attiene nel rispetto dei dettami consolidati da una lunga tradizione. Anzi gli intervalli, nel diario pubblicato, non sono dal lettore percepiti come vuoti o mancanze. Essi, piuttosto, recano all’andamento delle situazioni, delle questioni, dei luoghi e dei personaggi registrati da Rago nel loro susseguirsi una speciale cadenza.

Bene può esser sentita questa ritmica come allusiva e quasi consentanea con certi flussi della memoria quali sovente affiorano da, si dica, zone intatte, non segnate da tracce portatrici di senso. Notazioni, giudizi, immagini si stagliano così in una loro piena nitidezza. Restano tra queste perfette nella loro intensità, le note ‘intime’ che Rago dedica ad una introspezione inflessibile, al suo interrogarsi nell’intento di onorare il più nobile degli umani compiti quel «conosci te stesso» che fu inciso nel tempio di Apollo a Delfi. «Una pagina qualunque» scrive Rago il 5 gennaio del 1975, «è pur necessaria ogni giorno per sciogliermi, per trovare il rapporto con le parole. Compiere questo atto innaturale, forzato, artificiale è il momento più disastroso e nello stesso tempo la massima ambizione della mia vita, a partire dall’età di dodici o tredici anni».