Il cattivo ragazzo che non cerca la redenzione (Nick Kyrgios), un uomo e una donna che mescolano la vita professionale e quella amorosa (Matteo Berrettini e Ajla Tomljanovic), un figlio vicino al successo nel deserto della California (Taylor Fritz). E, poi, chi sta per realizzare un sogno (Maria Sakkari), chi combatte con la depressione (Paula Badosa), chi rappresenta suo malgrado (Ons Jabeur) un intero continente e, infine, due pretendenti (Félix Auger-Aliassime e Casper Ruud) al trono di un sovrano restio ad abdicare.
Sono in ordine sparso i protagonisti delle cinque puntate (e altre ne arriveranno) di Break Point, la nuova serie documentaria Netflix che allo stesso modo di Formula 1: Drive to Survive (con cui condivide il medesimo staff produttivo), drammatizza il dietro le quinte del mondo sportivo al di là del campo di gioco o, per essere in linea con l’enfasi dei narratori, del teatro di battaglia. Come per i piloti che si battono sulle piste, anche nel mondo del tennis sembra che l’unica ossessione sia vincere e, di conseguenza, scalare la classifica per diventare numero uno.
Le puntate seguono lo stesso andamento, alternando le immagini degli incontri (di un anno fa a Melbourne, Indian Wells, Madrid e Parigi) alle interviste, con delle incursioni negli spogliatoi, nelle sale dei massaggi, nelle camere d’albergo, nelle case dei famigliari. Nonostante lo sforzo profuso e il gran numero di persone coinvolte, nella maggior parte dei casi la serie non si distanzia da quello che normalmente siamo abituati ad apprendere dai video e dai post condivisi nei social.

A ESIBIRE qualcosa di simile a un conflitto con i propri demoni, sono Badosa, che parla della sua depressione, Jabeur, che racconta quanto sia complesso trovare un punto di incontro tra la vita di una campionessa e quella di una donna fuori dagli stadi, Sakkari, che vorrebbe ritirarsi dopo un’altra sconfitta, Tomljanovic, che deve lasciare Melbourne dopo una bruciante eliminazione. Ma è solo un’effimera deviazione dallo spartito, peraltro affidata alle tenniste. Nel tratto principale, la serie avanza attraverso luoghi comuni, scontentando, si presume, sia gli appassionati che sanno già, sia quelli che non seguono il tennis e che probabilmente vorrebbero entrare nelle stanze di personaggi più noti come Novak Djokovic e Rafa Nadal.
Il tennis è uno degli sport che più si presta al racconto letterario e alla ricostruzione audiovisiva. E questo perché oltre al gesto tecnico, all’azione spettacolare, alla strategia messa in atto da due (al massimo quattro) contendenti, entra in gioco l’elemento psicologico, ossia quell’avversario barricato dentro la testa di un giocatore, impossibile da stanare e che, anzi, spesso risulta il vero vincitore della contesa, pur non ricevendo premi e assegni. Insomma, nel tennis si esalta, come succede nel pugilato, la relazione tra visibile e invisibile, tra ciò che è davanti agli occhi di tutti e quello che si nasconde nel labirinto di una mente.

COSA PUÒ PASSARE nella testa di un Nadal sotto di due set contro uno più giovane di almeno dieci anni, dopo tanti chilometri percorsi sul campo, numerosi infortuni, decine e decine di coppe alzate al cielo? Quale demone lo spinge a proseguire, a colpire la pallina, a cercare un punto debole, o semplicemente a guardare al di là della rete l’avversario come è accaduto l’altra notte a Melbourne, quando è rimasto in campo praticamente zoppo? Perché la ventiseienne Ashleigh Barty, fino allo scorso anno indiscussa numero uno del mondo, improvvisamente abbandona il circuito per intraprendere una nuova vita?
Per riprendere il titolo che allude a un momento importante di una partita (la possibilità di togliere il servizio all’avversario), il punto di rottura non è situato sul confine tra la vittoria e la sconfitta, ma nella nostra esistenza, tra ciò che siamo e che vorremmo essere, tra una pallina che colpisce una riga e una che, irrispettosa delle nostre intenzioni, decide di andare oltre.