Un articolo uscito pochi giorni fa, basato su dati OEDC, dipinge uno scenario allarmante per i salari italiani, che sarebbero diminuiti rispetto al 1990, unico caso in Europa.

Al di là delle differenze fra vari paesi, che per resistenza dei propri sistemi o per un migliore posizionamento rispetto alle grandi dinamiche economiche, la stagnazione dei redditi da lavoro dipendente se non un loro peggioramento sono fenomeni ampiamente diffusi.

I “colpevoli” in generale sono ben noti: precarietà, contratti “atipici” e disoccupazione (la quale ovviamente, rendendo la posizione del padronato più forte può assumere a stipendi più bassi). Oramai la mancanza di evidenze scientifiche sulla correlazione di più precarietà e maggiore occupazione sono così evidenti da rendere imbarazzante il mantenimento di una protezione sociale tanto bassa, che dal “Pacchetto Treu” al Jobs Act ha visto una dinamiche nettamente peggiorativa.

Tanto le riforme del 1997 che quelle successive del 2003 approvate sotto Berlusconi sono state concepite nel solco delle strategie della Ue per rendere l’Europa “l’economia più competitiva e dinamica del mondo”.

Tuttavia la modificazione del diritto del lavoro in senso favorevole ai desideri confindustriali va contestualizzata con le trasformazioni strutturali che hanno sospinto, rafforzato se non determinato tale esito. Ne elenchiamo due.

La prima è la vocazione ad economie export-led. Se il commercio globale negli anni Novanta aumentava con tassi di +6,6 annuo (in media), negli anni Sessanta aumentava di +8%. La differenza è mentre allora il pil cresceva in media di +5,5%, più recentemente si riduceva ad uno stiracchiato +2,6%. Certo fa effetto asserire che il commercio aumenta il doppio del pil, ma la realtà è che il secondo ad essere diventato più fiacco.

Tale capovolgimento manifesta una inversione di priorità: in un mondo che ricercava il pieno impiego e una forza preminente del lavoro dipendente la crescita era trainata dai salari. Dato che erano tutti a seguire le medesime politiche il commercio estero veniva ravvivato dalla crescita della domanda altrui, che però restava secondaria rispetto a quella interna.

Vi era una convenienza anche per il padronato ad alti salari, se no chi avrebbe comprato i prodotti? Gli anni Ottanta invece inaugurano l’età in cui si presume che siano gli stipendi ad essere in funzione dell’export. Nel nuovo quadro le aziende hanno un maggior incentivo ad abbassare le retribuzioni, in quanto la perdita di potere d’acquisto interna viene più che compensato dal surplus di profitto dai mercati esteri. Ma non tutti hanno la capacità di esportare: chi si proietta sul mercato interno deve tagliare i costi per aggiudicarsi la declinante domanda, o viene sacrificato sull’altare dell’export.

La seconda consiste nelle dinamiche di finanziarizzazione dell’economia, consistenti nel dirigere gli investimenti non in processi di produzione e vendita di beni e servizi, ma nell’incremento del valore patrimoniale della azienda stessa. Cioè l’impresa galleggia nei mercati finanziari, riconoscendoli come gli unici misuratori del suo valore, vendendo le proprie azioni ed obbligazioni in borsa. Una tendenza che va a braccetto con il mondo dell’export-led, specie se delocalizza la produzione in modo da nutrire il proprio brand liberandosi dal quasi imbarazzante impaccio di gestire i processi materiali, cosa prudentemente esternalizzata.

La precondizione di base è una infrastruttura giuridica volta a favorire i processi tanto di movimenti di capitale quanto di operazioni volte alla accumulazione di esso quali fusioni, articolazione in holding e controllate, cessione di rami d’impresa ecc.; proprio ciò cui è devoluto il T. U. della Finanza cui lo stesso Draghi ha dato il contributo fondamentale, dando luogo alla perniciosa centralità della borsa nell’economia italiana e ai conseguenti fenomeni di diseguaglianza crescente, caduta dei salari, e privatizzazioni di un patrimonio collettivo di infrastrutture essenziali per il benessere e la coesione sociale del paese.