Tra le molte forme di relazione che si danno tra una pianta, il suo fiore e un territorio, quella del giaggiolo, specialmente con la Toscana della valle dell’Ema, di gran parte del Valdarno, del Chianti fiorentino e della provincia di Arezzo, assume i tratti di una sorta di microstoria rivelatrice. E questo ben al di là dell’esser stato assunto – Iris germanica, varietà florentina o giaggiolo bianco – come emblema di Firenze fin dal Medioevo, o per l’etimologia popolare – oltre quella dal latino gladiolus, piccola spada, per la forma delle foglie – che in toscano lo vuole diacciolo, poi giaggiolo, per il colore e la forma allungata del suo bocciolo, bianco azzurrato, come di ghiaccio.

Da impiegarsi in varie preparazioni mediche o cosmetiche, il rizoma di iris, specialmente tra secondo Settecento e primo Novecento, viene coltivato qui pressoché in ogni podere, in piccoli appezzamenti su superfici sassose dove cresce senza bisogno di troppe cure, complemento alle colture principali, fino a ordinare il paesaggio, costituendo un’integrazione significativa nell’economia contadina, una presenza caratterizzante nel percorso di vite vissute, nelle sorti di territorio. Una vera e propria epopea, come raccontano nella loro ricerca Andrea Bettarini e Lucia Diodato: Il giaggiolo (Edizioni Polistampa, pp. 138, € 18,00).

Già gli etruschi lo raffigurano sulle urne funerarie mentre Ippocrate e poi Plinio ne derivano unguenti e rimedi. Passati poi dagli orti dei conventi alle università, dove, oltre ai medicamenti, lo speziale appronta inchiostri e colori, con i fiori di giaggiolo si prepara un verde denominato verdilis o verde iris. Ma la sua radice si rivela soprattutto capace di mantenere a lungo l’aroma, ed esaltare quello delle sostanze con le quali vien mischiato. Di un tale pregio profitterà Renato Bianco, alchimista al seguito di Caterina dei Medici, regina di Francia dal 1547, che diverrà maestro profumiere di corte, dove diffonderà la moda di fragranze presto divenute segno di distinzione sociale.

Per l’epopea che qui interessa, è nella settecentesca Toscana granducale che la coltivazione del giaggiolo s’impone come risorsa molto redditizia, anche in valuta. Le richieste, alimentate specialmente dall’estero, viaggiano sull’onda della moda di lusso per profumi e cosmetici.

È tuttavia l’invenzione di un prodotto alternativo ai suoi tradizionali impieghi a costituire un ulteriore capitolo di questa microstoria: nel 1825 il francese Pietro Rambaud avvia a Pontassieve una manifattura che impiega venti, poi cinquanta operaie, con un salario per i tempi di tutto rispetto, per ricavare dalla lavorazione al tornio del rizoma essiccato sfere di varie dimensioni forate e colorate per farne collane, bracciali e rosari profumati destinati alla vendita, specie in Oriente.

Novità, che assieme ad altre forme di conduzione, familiare, o cooperativa, hanno l’effetto parallelo di rianimare un territorio e un’industria agraria in difficoltà. Fino alle crisi di eccedenza del volger di primo Novecento, complice il profilarsi della concorrenza sostitutiva dell’industria chimica. Presenti secondo alterne fortune anche nei giardini, e sempre più dal Novecento, con la creazione di migliaia di nuove varietà e ibridi, gli iris han da sempre intercettato simbologie e immaginari. Fiore della primavera, come lo definisce l’agronomo medievale Pier de’ Crescenzi, associato a Flora nella Primavera di Botticelli, che lo ritrae secondo la lezione dei Fasti di Ovidio, come protagonista nei quadri di Van Gogh. Ne scrive Corrado Govoni: «celesti giaggioli/ sono i fiori più belli della terra, /vere orchidee dei poveri/ che nemmeno li guardano».

Ma, se si è a Firenze, questo è il momento di ammirarne le fioriture nel Giardino dell’iris, orto botanico dedicato, dove dal 1954 si organizza un prestigioso concorso internazionale per valutarne le migliori varietà.