Non ci sono dèi nel teatro di Seneca, dice a un certo punto. Chi è allora la figura vestita di un abito rosso di taglio maschile e assai appariscente che presidia la Fedra di Andrea De Rosa? Arrampicata su un alto sgabello, davanti a una selva di microfoni, si presenta al pubblico come Afrodite. O meglio, Venere. Per restare fedele al mondo dell’autore latino. Però sono ispirate all’Ippolito di Euripide le parole con cui, in una sorta di prologo, disegna la situazione in cui si colloca l’azione che si prepara. Dice che lei è una dea potente e tiene in conto quelli che rispettano il suo potere e invece quello lì, Ippolito appunto, rifiuta l’amore e onora solo Artemide, o chiamatela Diana, mentre va a caccia tutto il tempo con i suoi cani. E dunque ha deciso di punirlo.

Ha fatto sì che la sposa di suo padre Teseo diventasse folle d’amore di lui. E ora rivelerà questo amore incestuoso all’eroe che sta tornando a casa da una delle sue non sempre encomiabili avventure, è sceso addirittura nel regno dei morti per cercare di rapire Persefone – a quelle ombre alludono forse le maschere senza volto piantate su un lato buio della scena (visto all’Arena del Sole, lo spettacolo prodotto da Ert insieme allo Stabile di Torino è ora in scena alle Fonderie Limone, banlieue torinese, fino al 20 dicembre).

Reintrodurre una volontà divina là dove la Phaedra di Seneca l’aveva tolta significa, così ci sembra, così sembra voglia dire il regista, leggere qualcosa di fatale nell’innamoramento, inteso come passione semplice che va altrove rispetto alla complessità del sentimento d’amore. Qualcosa che sfugge al controllo della mente, che confina con una febbrile follia nel confessare che ormai è tardi per il pudore. Un abbandonarsi al destino, di cui forse l’innamoramento è (solo) un paradigma. Va in questo senso anche l’interpretazione molto carnale della protagonista, Laura Marinoni. Si è data anche una spiegazione, per quel desiderio che l’ha invasa. Che quel giovinetto scontroso le ricorda l’uomo che ha amato un tempo, il giovane che era stato Teseo.

Ma le cose non sono così semplici, né per lei né per lo spettatore. E non solo perché la dea o presunta tale, la divertita Anna Coppola, se ne sta poi quasi sempre ai margini dell’azione, da spettatrice curiosa dell’effetto che fa, magari fumando una fastidiosa sigaretta.

Al centro della scena, immersa in una perenne oscurità, è installato un cubo dalle pareti vetrate che si colora di luminosità emotive, dal grigio al rosa, o esplode in una luce abbagliante, e si riempie nel finale di una nebbia fitta (dunque «questo amore è una camera a gas»?). E questo involucro delimita anche fisicamente lo spazio mentale in cui si gonfia il dramma di Fedra; le sue pareti formano una barriera all’apparenza invisibile quanto in realtà insuperabile dalla donna che vi si preme contro con il corpo, in un contatto anche molto erotico. Qui ha luogo lo svelamento fatale davanti al bell’indifferente, l’Ippolito di Fabrizio Falco, che nemmeno si rende conto dell’involontaria ironia di parole come «farò in modo che tu non ti senta vedova» – e già aveva respinto l’esplicita seduzione della ragazza, Tamara Balducci, che ha preso il ruolo maieutico della vecchia nutrice e fa un po’ da coro tragico. Qui da ultimo si consuma lo scontro atteso con lo sposo che ritorna, l’opaco Teseo «borghese» di Luca Lazzareschi, portatore di una naturale violenza «di classe».

Fuori è appunto un regno di ombre, percorso a folate sonore da una rumoreggiata in cui un Lied di Schubert si alterna all’eco di latrati lontani.
Andrea De Rosa ha fatto studi di filosofia e praticato la tragedia ateniese e lì nel mezzo vuole stare, nello spazio che si apre fra la memoria del tragico e la morale crudele del filosofo-tragediografo latino di Cordova. Fra lo stupro e il suicidio che si compie in spruzzo di sangue, si potrebbe dire esagerando la sineddoche, per tenersi all’esperienza solitaria e finale della protagonista. Se Euripide guarda a Ippolito e Seneca a Fedra, e qualcosa vorrà pur dire questo spostamento dal maschile al femminile, lo sguardo di De Rosa sembra volerli superare entrambi. Non per caso forse l’ultima immagine che ci lascia è l’ombra platonica del corpo smembrato del ragazzo che si proietta sul fondo. Su cui interrogarci, nell’assenza degli dei. Si torna lì.