«Qual è oggi la sua situazione giudiziaria e professionale in Iran?» chiede il critico francese Jean-Michel Frodon a Jafar Panahi nell’estratto di una conversazione pubblicata sul sito del Centre Pompidou – la versione integrale è in «Code Coleur» settembre-dicembre 2016.
Risponde il cineasta: «Nel 2011 sono stato condannato in appello a sei anni di prigione e a non poter più girare film né uscire dal Paese per vent’anni. Ho dovuto ricorrere a degli stratagemmi per ricominciare a lavorare nonostante il divieto. Nel 2008 era stato rieletto alla presidenza Mahmoud Ahmadinejad, un risultato che aveva provocato un movimento di proteste popolari. Insieme a un altro regista, Mohammed Rasoulof, avevamo realizzato un film su questi eventi. Un giorno la polizia è piombata a casa per arrestarmi. Non ho capito subito la portata di quella condanna, cosa avrebbe significato per me. Per fortuna le telecamere digitali e altri strumenti tecnologici permettono oggi di girare senza chiedere i permessi, a basso costo e in modo discreto. Così ho potuto ricominciare a fare film…».

 
Il resto è storia nota. Le poltrone rimaste vuote ai festival di tutto il mondo in segno di protesta contro la condanna, il primo film girato clandestinamente, This is not a Film (2011) uscito dall’Iran in un hard disk nascosto in una torta e presentato al Festival di Cannes, le polemiche tra la Berlinale e il governo iraniano quando il festival diretto da Dieter Kosslick ha invitato in concorso Closed Curtain (2013) premiato con l’Orso d’argento alla sceneggiatura – anch’esso realizzato da «fuorilegge». Come del resto il più recente – uscito anche in Italia – Taxi Tehran, Orso d’oro a Berlino, nel quale il regista è il protagonista alla guida di uno strano taxi che si trasforma lungo la strada, da un passeggero all’altro nel microcosmo della società iraniana oggi.

 
Lui però non è mai più venuto a accompagnarli i suoi film (se non virtualmente), non abbiamo più avuto la possibilità di ascoltarlo parlare di cinema, del suo lavoro nel resto del mondo. E negli anni le «sedie vuote» riservate ai cineasti iraniani sono aumentate, ultimo il caso del regista (di origini curde) Keywan Karimi, il cui film Drum è stato presentato alla scorsa Settimana della critica di Venezia. Lui non c’era, «chiuso» in Iran in attesa della condanna: il carcere e 223 frustate. Colpevole anche lui di avere offeso col cinema – il precedente film Writing on the City, sui graffiti che coprono i muri di Tehran – il governo islamico.

 
Panahi è diventato per la sua vicenda giudiziaria un simbolo di ribellione contro quei governi che censurano con violenza i propri artisti. Ma non solo. Il cinema di Panahi è infatti magnificamente innovativo sin dal primo film, quello almeno che lo ha rivelato al mondo, Il palloncino bianco (1995, Caméra d’or a Cannes) e che è stato un grande successo anche in Iran dove le sue opere sono proibite. Poi ci sarà Il cerchio – produzione indipendente che gli permette di sfuggire alla censura – e la poetica di Panahi si afferma sempre di più come una dichiarazione politica che inventa a ogni nuovo film un dispositivo cinematografico. Costruisce tensione, da forma al conflitto, mette a nudo il paradosso repressivo della suo Paese, si muove oltre i codici del genere tra messinscena e realtà.

 
In questi giorni il Centre Pompidou dedica a Panahi una retrospettiva integrale accompagnata dalla mostra che col titolo di Les Nuages raccoglie le sue fotografie. Nuvole nere e bianche che attraversano l’inquadratura soffiandovi la trama di una possibile storia. Una passione scoperta con la reclusione e che nel tempo ha costruito un nuovo racconto, affermando ancora una volta uno spazio di libertà.